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La politica sarà un reality

04/01/2007

Televisione al bivio, dicono. Da una parte più trash e intrattenimento al ribasso, dall’altra più cultura, impegno, attualità, cronaca, approfondimento, come chiedono gli spettatori più pensosi. Ma è un’alternativa reale? Perché è vero che a guardare i dati di ascolto del 2006 la "forma trash" per eccellenza, cioè i reality show, sembra soffrire di una crisi potenzialmente terminale. Crisi di assuefazione, crisi di saturazione. Si direbbe in sostanza che il reality abbia dato quasi tutto ciò che poteva dare: ha fatto il suo lavoro, dato che doveva rendere permeabile il diaframma tra pubblico e protagonisti televisivi. "Grande Fratello" o "L’isola dei famosi", insieme con tutti i loro epigoni, avevano un compito sociologicamente importante. Si trattava di portare lo spettacolo televisivo a contatto diretto con gli spettatori, riducendo al minimo la distanza fra lo show e le platee tv. Nel reality classico lo spettatore partecipa, almeno in quanto voyeur. Per questo, anche la scelta dei protagonisti risponde a criteri di efficacia nell’identificazione: soprattutto nei reality basati su storie concentrazionarie, in un contesto totalizzante ed esclusivo, isola o appartamento Ikea, ciò che conta è mettere a disposizione dell’audience figure semiriconoscibili, quasi star di cui il pubblico può individuare facilmente la caratura, giungendo a considerarle dopo qualche tempo come figure non lontane dal proprio vissuto. Con l’andar del tempo, questa essenza dei reality è divenuta fin troppo rintracciabile. Anche gli spettatori meno disincantati se ne sono accorti. Se all’inizio è divertente identificare la normalità di Carmen Russo o Al Bano rispetto all’"Isola" o l’eccezionalità di Loredana Berté in "Music Farm", e se per qualche tempo ci si poteva vagamente interessare a una love story fra due cantanti segregati, alla lunga la ripetitività e la prevedibilità portano a decodificare il reality show nel segno della totale normalità. È per questo che ha avuto successo improvviso e clamoroso l’iper-reality "La pupa e il secchione", portato dalla coppia diabolica Fabrizio Rondolino e Simona Ercolani a effetti volutamente parodistici, con l’aggiunta di risate registrate a sottolineare le performance culturali "incredibili" delle pupe. Come si intuisce, se il reality diventa un reality al cubo, si esaurisce l’illusione del realismo. Lo show diventa a tutti gli effetti televisione pura, intrattenimento autoreferenziale, senza nessun intento mimetico o di rivelazione sociologica. Nel carnevale delle pupe e dei secchioni, ogni eccesso di ignoranza civile o di deficit culturale diventa plausibile in quanto funzionale al divertimento collettivo. Il pubblico finge di credere al vuoto mentale delle ragazze e in qualche misura lo trova ben presto rassicurante: siamo tornati nella sfera dello spettacolo, in una dimensione decifrabile, "scritta", pensata in funzione della risata liberatrice. La tv torna a essere se stessa, ripristinando una distanza effettiva fra realtà e fiction, tra la vita e la soap opera. Da questa parte, ovvero dalla parte dello spettatore, c’è la densità dell’esistenza; di là, oltre lo schermo, c’è una finzione scritta e di nuovo identificabile. Eppure, consegnato il reality alla sua sorte, è piuttosto dubbio il ritorno alla tv pensante e pesante. Anzi, la tendenza ipotizzabile potrebbe essere piuttosto quella di proiettare all’estremo la tv attuale. Sappiamo già da tempo che l’identità televisiva tende ineluttabilmente a privilegiare la maschera sul volto. E certo non da oggi: la maschera di Aldo Biscardi con il "Progiesso" ha segnato quasi un trentennio di Bar Sport televisivo. Mentre Marco Giusti ha raccolto di recente in un libro e dvd "Il meglio di 90° minuto", in cui il teatrino condotto da Paolo Valenti, Tonino Carino, Giampiero Galeazzi, Luigi Necco e Giorgio Bubba assurge al rango di commedia dell’arte. Adesso i protagonisti della tv generalista sono quasi sempre estremizzazioni di una identità. Vittorio Sgarbi, prima degli impegni governativi o assessorili, era l’incarnazione freak dell’insofferenza litigiosa; Aldo Busi non era il bravo scrittore ma l’interprete di un’omosessualità spettacolarizzata; e d’altronde soltanto gli ingenui pensano che ci sia da una parte la televisione "di qualità", quella di Piero Angela e dei documentari, e dall’altra l’intrattenimento basso-popolare, quello di "Buona domenica" e di "Domenica In". Una volta che si è capito che la tv è la tv, un flusso continuo di immagini e suoni, resta soltanto il problema di come intensificare l’irrealtà televisiva portandola a una specie di irresistibile superfetazione, a una metastasi incontrollabile dei significati. Dev’essere per questo che anche lo spettacolo tradizionale è andato in crisi. Perché la tv normale ed estrema del nostro tempo fa diventare noioso lo show classico, quello con Gianni Morandi che canta l’ultima canzone e duetta poi con Catherine Deneuve. In modo analogo, quasi tutti i programmi "di genere", da "Zelig" a "Crozza Italia", hanno mostrato i loro limiti. Perché sono prevedibili, accertabili, poco sorprendenti. Se la tv ha bisogno di mostri, allora un possibile programma-paradigma, o programma-manifesto, è il "Rockpolitik" di Adriano Celentano, in quanto promette sempre uno choc percettivo, la promessa dell’inafferrabilità ideologica e narrativa. Ecco allora che il binomio programmatico della scelta fra "rock" e "lento" si rivela un criterio personale proposto agli spettatori con un tono di piccola quanto evidente provocazione: soggettività assoluta che si offre al pubblico come se avesse fondamenti oggettivi (mentre il "ce l’ho" e "mi manca" inventato da Diego Cugia per Morandi contiene ancora una parte consistente di realtà, non di reality, dato che richiama elementi storici, morali o nostalgici, scelte di campo affettive o culturali anziché più esplicitamente di gusto e di arbitrio). In sostanza, lo schema che si sta affermando è quello della forzatura dei format. Come l’irruzione campale di Fiorello, annunciata da grandi titoli sui quotidiani, che scompagina anche i palinsesti e talora addirittura l’agenda politica della giornata e della settimana. Ma anche "Che tempo che fa" di Fabio Fazio è cresciuto in modo forse imprevedibile dalla struttura del talk show a quella della trasmissione evento, in cui gli elementi spettacolari si mescolano con quelli di attualità, con la Littizzetto anti-Ruini che vale, sul piano del messaggio politico, la testimonianza di Enzo Biagi post-Berlusconi. Stando così le cose, sarebbe curioso immaginare come possono trasformarsi i programmi di approfondimento quotidiano o settimanale come "Porta a Porta", "Ballarò", "Matrix", "Annozero". Anzi, è probabile che il grado successivo di evoluzione delle trasmissioni fondate sul talk show politico sia la possibile esplosione della loro struttura. Altro che approfondimento: si tratta di trovare un Freccero, un Ghezzi, un Ricci che trovino il modo di introdurre una carica di esplosivo nel format, facendolo deflagrare verso un genere inedito. D’altronde, era stato proprio Bruno Vespa a innescare la trasformazione del dibattito politico immettendo nell’ufficialità schegge devianti (il risotto di Massimo D’Alema con Vissani, il diritto e rovescio di Giuliano Amato in un improvvisato scambio a tennis con Panatta). Occorre un talento televisivo che si applichi alle trasmissioni "politiche", curvandole verso esiti esclusivamente spettacolari. A quel punto, il dibattito potrebbe essere confinato in un set a parte, con un collegamento di tanto in tanto ed eventualmente una cronaca riassuntiva, mentre in primo piano andrebbe una discussione sul campionato o un approfondimento su Lele Mora. Oppure ancora: trasformare la discussione ideologica in una sceneggiatura, in cui Giulio Tremonti e Pier Luigi Bersani recitano la loro parte, come in una commedia. Ma si potrebbe anche applicare la tecnica del reality all’approfondimento politico: niente tema del giorno, niente intervista, zero domande. Una telecamera che segue gli ospiti, un prosecchino e due olive, e poi chiacchiera libera, per vedere se e come i protagonisti del conflitto politico trovano un terreno di dialogo. E a sua volta la fiction potrebbe essere trasferita al livello di massima contemporaneità: si è già visto che fra i tv movie di maggiore successo figurano quelli che riportano in scena papa Wojtyla e Padre Pio, cioè figure prossime all’attualità; e allora non ci vorrebbe molto a sceneggiare la notte delle elezioni del 10 aprile 2006, con belle interpretazioni di Fassino, Pisanu, Berlusconi, come pure l’elezione di Giorgio Napolitano o la formazione del governo Prodi. Altro che approfondimento: si tratta di sovrapporre in modo simultaneo gli eventi alla narrazione facendoli diventare capitoli di una story televisiva che non si interrompe mai, e che si affianca al presente senza soluzione di continuità. Perché il destino della televisione non consiste nel tornare alla realtà, o nell’approfondirla, ma nel prendere la cronaca e la politica facendole diventare coerente racconto televisivo, pura realtà elettronica. Se nulla esiste, infatti, fuori dalla televisione, allora tanto vale assumere la realtà esclusivamente come un materiale trattabile, sostanza grezza che l’occhio della tv provvederà a rendere vero. O più vero del vero, magari. n

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