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La rivolta dei padroni

22/06/2006

Nelle conversazioni riservate a Palazzo Chigi, Romano Prodi lo ripete spesso: «Un muro contro muro fra governo e imprenditori non conviene a noi e non conviene al paese. Bisogna che lo facciamo capire». Ma fra il dire e il fare c’è di mezzo Vicenza. Cioè il numero di alta spettacolarità circense in cui Silvio Berlusconi si è presentato a casa Montezemolo e si è ripreso la base confindustriale, lasciando stordito il vertice della Confindustria. Gli effetti dell’exploit vicentino non si sono spenti. Il ceto imprenditoriale ha risposto all’appello. Nelle sedi territoriali della Confindustria serpeggia un’insofferenza sorda. Verso il governo, ma soprattutto verso la fase nuova, la maggioranza di centrosinistra. Al potere sono andati "gli altri". E un gran pezzo della base imprenditoriale all’improvviso si è sentito orfano. Amareggiato. Anche incattivito. Deluso dal destino cinico e baro e anche da una Confindustria troppo sbilanciata a sinistra. Con i sentimenti non si scherza. Prima delle elezioni di aprile l’élite confindustriale era inequivocabilmente convinta del fallimento del governo della Cdl. Il vicepresidente Andrea Pininfarina, politicamente un moderato, lasciava capire che applicando con rigore il principio maggioritario e bipolare, il criterio dell’alternanza, c’era una sola conclusione possibile. Questi, cioè i berluscones e i loro alleati, hanno fallito; adesso mettiamo alla prova gli altri, cioè il centrosinistra. Berlusconi ha fatto saltare il quadro. A fine maggio Romano Prodi è stato accolto con freddezza all’assemblea confindustriale di metà mandato. Luca Cordero di Montezemolo ha sollevato ovazioni quando ha citato il grand commis di Berlusconi, Gianni Letta. Ha riscosso consensi soprattutto quando nella sua relazione ha rimarcato i passaggi più "di destra". Successivamente, ha dovuto padroneggiare l’incidente diplomatico di Varese, i fischi (o «i brusii», secondo la versione minimizzante di viale dell’Astronomia) all’indirizzo del segretario della Cgil Guglielmo Epifani. Nel complesso, un clima segnato da una ideologizzazione inedita: per ritrovare un atteggiamento così antigovernativo, da vecchia "razza padrona" bisogna tornare ai primi anni Sessanta, all’opposizione durissima dei monopoli contro la nazionalizzazione dell’energia elettrica (che portò a una specie di temporaneo ritiro della fiducia alla Dc a favore del Pli di Giovanni Malagodi). Il fatto è che in questa stagione non sono i vertici del mondo imprenditoriale a fare la faccia cattiva. È soprattutto la base. «Non dobbiamo dimenticare», dice da Palazzo Chigi Enrico Letta, uno degli uomini della squadra di governo che con Pier Luigi Bersani ha sempre avuto un rapporto di sintonia con la realtà produttiva, «che il fattore Berlusconi ha avuto un ruolo eccezionale». Il Cavaliere è riuscito ad agitare in profondità il sentimento politico degli imprenditori, appellandosi a una loro identità di destra, risvegliando un’istintualità politica che sembrava annegata nel pragmatismo "modernizzante" di Luca Cordero di Montezemolo. Stiamo assistendo allora alle premesse di una "rivolta dei padroni"? Aldo Bonomi, uno studioso che esplora da anni il capitalismo di piccola impresa, sostiene che prima di guardare agli schieramenti politici occorre tenere presente una questione quasi "antropologica": «Quando un’impresa famigliare approda in Confindustria, è come approdare a una spiaggia di lusso dopo avere navigato nel mare aperto del capitalismo molecolare. Non perde il suo Dna, che è fatto di famiglia, territorio, comunità locale, reti corte di produzione. La spaccatura che si è vista a Vicenza è fra questo mondo, che fa i suoi conti difficili con la globalizzazione, e il salotto buono, dove le banche e la finanza contano più del lavoro duro nel mercato». La divaricazione fra élite e seconde file del mondo industriale è diventata un problema cruciale per Montezemolo. Il grande federatore, colui che aveva ricucito la Confindustria e riannodato i fili con il sindacato dopo gli strappi di Antonio D’Amato sull’articolo 18, si trova in una condizione complicata. Dice Giulio Santagata, ministro per l’Attuazione del programma e braccio destro di Prodi: «Montezemolo si sforza di accreditare le imprese italiane come la punta più avanzata del paese, come la parte che ha già compiuto gran parte del cammino verso la modernizzazione. Ne deriva per converso che è il sistema paese, e segnatamente la parte pubblica, a essere in ritardo e a costituire un freno al recupero di competitività. Ma non è esattamente così». Secondo osservatori attenti anche il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, nel presentare la "due diligence" sui conti pubblici ha lasciato filtrare giudizi freddi sulla struttura industriale e sull’adeguatezza degli investimenti nelle imprese. Il governatore di Bankitalia Mario Draghi ha segnalato nelle "Considerazioni finali" la necessità che la concorrenza diventi senza sconti un elemento strutturale del sistema italiano (guadagnandosi per questo la qualifica di "capo del partito che non c’è, quello del mercato"). La vistosa perdita di competitività dell’industria italiana non può essere imputata soltanto al deficit infrastrutturale, all’insufficienza dei servizi pubblici o alla "over-regulation" burocratica. Anche se, sottolinea Bonomi, «l’arcipelago delle imprese, che ha affrontato negli ultimi dieci anni una selezione feroce, sconta come una difficoltà scoraggiante l’arretratezza di contesto, il mancato adeguamento del sistema». Secondo Santagata, tuttavia, il sistema delle imprese è molto variegato al suo interno; a fianco di realtà molto dinamiche e competitive ci sono ampie aree che non se la sentono di affrontare la competizione e cercano protezione in nicchie a bassa concorrenza o nell’incentivazione pubblica. Quindi una forte domanda di innovazione finalizzata alla competitività convive con una comanda di conservazione protettiva: «Ne deriva una difficoltà oggettiva a rapportarsi in modo lineare con la politica e il governo, e a schierarsi su una linea di riformismo incisivo». Anche il sottosegretario Letta tenta di analizzare la psicologia imprenditoriale: «Il problema è che dalla destra la maggioranza delle imprese italiane accetta anche parole al posto dei fatti. Dal centrosinistra no. Quindi dobbiamo far parlare i fatti. E per far parlare i fatti, cioè realizzazioni vere e durature in chiave di competitività, c’è bisogno di tempo». Non sarà facile. In qualche occasione la base confindustriale sembra apprezzare le posizioni chiare e distinte, come è accaduto con Massimo D’Alema al convegno dei Giovani a Santa Margherita. Meglio un politico "cattivo" e addirittura sprezzante che un muro di gomma. A Montezemolo tocca il compito improbo di riunire tutte queste anime confindustriali. Come commenta Bonomi: «La Confindustria di Montezemolo è stata un incrocio operoso della media impresa, simboleggiata dalla Ferrari, dall’impresa di Pininfarina, dalla Brembo di Bombassei: ma adesso, dal basso, i "piccoli" gli fanno capire che ha prestato troppa attenzione alla punta della piramide. Lui si trova obbligato ad ascoltarli, a tenere insieme il capitalismo delle grandi utilities e il capitalismo turbolento dei piccolissimi». Mentre il governo Prodi si trova nella condizione di dover dire soltanto due parole al mondo imprenditoriale, risanamento e crescita, la Confindustria è a un bivio. Mettersi di traverso, e produrre una nuova virata lanciando per il prossimo mandato candidature "oltre Montezemolo", tutte legate massimalisticamente alla realtà lombarda o veneta, espressione del "male del Nord". Oppure cominciare a cercare un punto di mediazione possibile, in cui potrebbero avere un ruolo figure come quelle di Emma Marcegaglia e di Annamaria Artoni. O ancora tentare di costruire un progetto politico nuovo. Lunedì scorso ha destato notevole impressione il discorso con cui l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne è intervenuto all’assemblea dell’Unione industriale di Torino. Diciotto cartelle che rappresentano il più lungo discorso pubblico pronunciato in due anni di lavoro a Torino: «Un manifesto neo-industriale», lo definisce lo storico Giuseppe Berta, autore del fortunato e discusso volume "La Fiat dopo la Fiat". Marchionne ha delineato una visione in cui rifiuta il modello ultracompetitivo americano, propone un «dialogo costruttivo» con i sindacati, critica «le fissazioni della maggior parte degli analisti finanziari e anche di pensatori e commentatori economici liberali» a cui piacciono i licenziamenti e gli spargimenti di sangue in azienda. In sostanza, un capitalismo sociale di mercato, che dovrebbe piacere, e in effetti è piaciuto, al centrosinistra. L’autocandidatura della Fiat a fungere di nuovo da interlocutore del governo. E anche un messaggio interno alla Confindustria, per dire che va bene l’irritazione, niente da dire sulle nostalgie berlusconiane, ma conviene fare i conti con la realtà. Il che significa parlare con Prodi e i suoi ministri, e rinunciare alle idee di rivolta che non sono mai morte (era "Contessa" di Paolo Pietrangeli: allora, a minacciare di picchiare, era il proletariato). n

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