Scusi, c’è il professore? No che non c’è. E non cercatelo in sala docenti. Dieci anni fa la prima indagine Iard sugli insegnanti italiani aveva mostrato il sorpasso numerico delle donne anche nelle superiori. Raggiunto il 2000, la femminilizzazione si è accentuata «in tutti gli ordini e i gradi del nostro sistema scolastico». I maschi sono esemplari sempre più rari, forse in via di estinzione. È il primo dato che balza agli occhi dalla seconda indagine sulla scuola italiana svolta dall’istituto milanese. Condotta per conto del ministero della Pubblica istruzione, la ricerca ha coinvolto un campione nazionale di 7 mila 400 insegnanti statali e non statali, dalla materna ai licei. È stata coordinata da un pool di esperti composto da Carlo Buzzi, Alessandro Cavalli e Giancarlo Gasperoni, ai quali si sono aggiunti otto sociologi specializzati in materia scolastica. Ne sono derivate 450 pagine di sintesi ("Gli insegnanti nella scuola che cambia" si intitola il volume curato da Alessandro Cavalli), che il Mulino manda in libreria in questi giorni, e che propongono una mappa dell’universo scolastico italiano, essenziale nel momento in cui la scuola vive con molte inquietudini l’ampio processo di riforma che la sta investendo. L’indagine dice che per il genere maschile l’ultimo rifugio sono le scuole superiori, dove gli uomini resistono ancora sull’argine del 45 per cento. Ma per il resto le donne esondano. Trascurando la scuola materna, dove sono la totalità del corpo insegnante, nelle elementari superano il 93 per cento, e nelle medie inferiori oltrepassano il 70. La prima conclusione è brutale e poco femminista: queste percentuali suggeriscono che la "desiderabilità sociale" della professione di insegnante si è ulteriormente ridotta. Si aggiunga che queste schiere di donne non abbondano di giovani. Oltre la metà degli insegnanti è nata prima del 1953, sicché fra i paesi sviluppati l’Italia è agli ultimissimi posti per numero di docenti sotto i 30 anni. Commenta Antonio Schizzerotto, che ha curato la parte della ricerca sulla condizione sociale: «Non si può dire con certezza che la composizione per età costituisce un ulteriore indice di declino sociale dell’insegnamento. Tuttavia è intuitivo che un gruppo professionale di età matura non fornisce un’immagine particolarmente dinamica e attraente». A questi aspetti si aggiunge l’abbassamento del livello sociale delle famiglie d’origine. Dice il coordinatore dell’indagine, Alessandro Cavalli: «Non solo i figli, ma ormai anche le figlie delle classi dirigenti percepiscono la prospettiva di diventare insegnanti come una forma di declassamento, e quindi tendono a scartare questa opportunità». Per la verità sono gli stessi docenti a sentirsi un ceto in declino, che fa parte di un carrozzone burocratico, il quale tende a trasformarli in una classe polverosamente impiegatizia, sempre meno riconosciuta socialmente. In ogni caso, si riduce la distanza sociale fra docenti e studenti provenienti dalle classi medio- basse, e si registra un aumento della stessa distanza fra docenti e studenti della classe medio- alta. La professoressa rischia di venire squadrata dall’alto in basso dai rampolli di una borghesia per la quale gli insegnanti scivolano ai margini dell’area sociale del prestigio. Le aule sono sempre più grigie e il successo non rientra più nei meccanismi scolastici. Con qualche conseguenza quasi di tipo castale: ad esempio, sul "mercato matrimoniale" l’insegnante risulta poco attraente come partner da coloro che si situano o puntano ai vertici della scala sociale: se insegni non ti sposo. I dati dello Iard sottolineano che ciò vale soprattutto per i maschi. Ma anche le donne appaiono in seria difficoltà: se il 42 per cento delle insegnanti è sposata o convive con uomini appartenenti alle classi dirigenti, la maggioranza ha trovato un partner nella classe media impiegatizia o nella piccola borghesia urbana; e la scomposizione per età mostra un vistoso andamento al ribasso: quasi la metà delle professoresse sopra i 50 ha sposato un imprenditore, un dirigente, un libero professionista; sotto i 35 anni, la quota delle privilegiate scende a meno di un terzo. Professoresse da buttare, quindi? Si sentono frustrate, il mestiere è senza mobilità, la spinta al cambiamento è debole, e il fatalismo sulla propria posizione pubblica porta a una visione pessimista della società: a loro giudizio si affermano valori che dicono di di-sprezzare (la ricchezza, l’apparenza, l’immagine esteriore, il successo), mentre crollano quelli a cui sono legate, cioè l’onestà, la serietà, l’impegno, l’attaccamento al lavoro. Fin qui, il quadro sarebbe avvilente. Ma secondo Cavalli è con questa «maggioranza silenziosa» che bisogna fare i conti, sia nella gestione quotidiana sia nell’applicazione delle riforme, se l’obiettivo è una scuola in grado di favorire lo sforzo di modernizzazione del paese. Quindi occorre che l’identikit sia preciso. Ecco qua. La professoressa tipo è un essere ai confini della schizofrenia. Delusa dall’insegnamento ma senza avere mai nemmeno pensato di cercare un altro lavoro. Propensa ai consumi culturali, che appaiono in crescita, ma con la plateale eccezione del calo della lettura dei quotidiani (quasi che l’attualità politica segnalasse implicitamente la marginalità della scuola). Ipercritica sulle propria formazione professionale ma diffidente verso l’aggiornamento e la sperimentazione. Consapevole che la riqualificazione passa inevitabilmente attraverso l’introduzione di strumenti di valutazione, ma indisponibile a che questa valutazione sia compiuta dall’esterno. La medesima schizofrenia si nota nell’atteggiamento verso la stagione di riforme che si è aperta nella seconda metà degli anni Novanta. In particolare, sulla rivoluzione copernicana rappresentata dall’autonomia degli istituti non c’è un consenso generalizzato sulle modalità della sua realizzazione. Eppure l’autonomia suscita un’aspettativa notevole, perché lascia intravedere la possibilità di uscire dalle strettoie dei programmi ministeriali per modulare l’insegnamento su esigenze specifiche del contesto sociale e degli allievi. Alla fine, la scuola la salveranno o l’affosseranno le professoresse. Le "vestali della classe media", come le avevano definite 30 anni fa in uno storica ricerca Marzio Barbagli e Marcello Dei, intendendole come tutrici del cosmo di valori della classe egemone. Ma allora, sotto il cielo del Sessantotto, la società era da descolarizzare, secondo il provocatorio manifesto di Ivan Illich: oggi, svanite le rivoluzioni e in bilico le riforme, si tratta di sottrarre le vestali ai templi diruti della loro routine, e di investire sulle loro ambizioni non ancora del tutto frustrate.
30/11/2000