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La versione di Pansa

05/10/2006

C’è un modo divertente, gossiparo, dagospione di leggere il nuovo libro di Giampaolo Pansa, che si intitola "La grande bugia", sottotitolo "Le sinistre italiane e il sangue dei vinti", e che Sperling & Kupfer manda in libreria il 3 ottobre. È sufficiente infatti scorrere le quasi 500 pagine del volume per trovare una messe di litigi, polemiche, duelli giornalistici, storiografici e politici nati in seguito alla pubblicazione delle ultime opere di Pansa (per l’appunto "Il sangue dei vinti" e "Sconosciuto 1945", con cui il maestro cronista Pansa aveva riaperto le pagine della storia sui giorni della "vendetta" antifascista dopo il 25 aprile 1945). In questa lettura voyeuristica, ci sarebbe soltanto l’imbarazzo della scelta. Sciabolate con Giorgio Bocca, «l’Uomo di Cuneo», «campionissimo delle contraddizioni», antiberlusconiano e filoberlusconiano, antileghista e pro-leghista, che «oggi è un antifascista d’acciaio ma prima di fare il partigiano è stato un fascista scaldato e un razzista antisemita». E se pur nella polemica virulenta con Bocca permane un certo stile tracotante da fratelli coltelli, da duellanti dello stesso mestiere, in cui il disprezzo odierno è la faccia cattiva di una vecchia ammirazione, le convenzioni invece crollano quando il confronto avviene con figure meno rilevanti del grande cronista Bocca, «maestro professionale» ai tempi del "Giorno". Che si tratti del socialista Aldo Aniasi, o del rifondatore comunista Sandro Curzi, ma anche di storici come Sergio Luzzatto, Angelo d’Orsi, Giovanni De Luna, i colpi di Pansa potrebbero fare la felicità di ogni cultore del pettegolezzo. Ma ridurre "La grande bugia" a una tessitura di maldicenze, piccolezze, ripicche, compresi gli insulti di cui, scrive Pansa, «mi hanno ricoperto: bugiardo, falsario, cinico opportunista, voltagabbana, servo di Berlusconi, traditore, amico dei fascisti», significherebbe tradire il significato di un libro ben più che scomodo o irritante, che potrebbe avere nel dibattito storico- politico italiano un effetto perfino superiore allo choc provocato tre anni fa da "Il sangue dei vinti" (attestato anche dalle 400 mila copie vendute e dalle oltre 2 mila lettere «di persone che volevano raccontarmi la loro storia»). Perché la qualità del nucleo storico, politico e polemico del nuovo libro di Pansa si può ridurre a un solo aggettivo: micidiale. E non soltanto nel ridefinire la guerra di liberazione; ma soprattutto, ed è il tratto politicamente bruciante del libro, nel mettere a fuoco l’identità e il ruolo del Partito comunista nella storia italiana. Facendola a pezzi. Proviamo a riassumere: secondo Pansa, la storia della Resistenza è stata stravolta «da un diluvio di faziosità, di ipocrisie, di opportunismi partitici e ideologici, di retorica, di falsità». È un «lavoro truccato». È la grande sofisticazione della «vulgata» antifascista, come la chiamava Renzo De Felice, che intacca anche la verità vera, l’autenticità fenogliana della lotta di liberazione con i suoi chiaroscuri e i suoi contrasti interni. Una leggenda storica che ha sostituito alla realtà fattuale una leggenda politica. Ancora più esplicitamente: una sola grande bugia composta da una costellazione di sette bugie. Vediamolo, allora, il catalogo delle sette bugie, o leggende. In primo luogo, secondo Pansa non è vero che per i comunisti la Resistenza sia stata una lotta di liberazione dal fascismo e dal nazismo, «senza altri propositi nascosti». Per molti dirigenti e militanti, la guerra in montagna e la vittoria contro i nazifascisti era il passaggio naturale e obbligato per giungere alla conquista del potere, ossia alla formazione di «una democrazia popolare comunista, dominata da un partito unico e subalterna al totalitarismo sovietico». Un destino praghese, o ungherese, dominato dalle figure tragiche di Slánsky e Masaryk era dunque nei piani di un partito internazionalista, legato alla potenza dell’Urss, che «si reggeva su un regime totalitario, non diverso da quello nazista e fascista». La seconda "leggenda" che regge il castello della mitologia resistenziale è che gli italiani fossero contrari al regime di Mussolini: il consenso alla dittatura, descritto da De Felice, si protrasse anche all’epoca della Rsi, con un’Italia profonda che non era e non si sentiva estranea alla storia del fascismo. La terza leggenda racconta che la Resistenza è stata una guerra di popolo, una gloriosa esperienza di massa: cioè la visione ideologica lanciata da Luigi Longo nel 1947 con "Un popolo alla macchia": «un libro bugiardo», che argomentava come «tutti gli italiani delle regioni occupate dai tedeschi si fossero epicamente sollevati contro i nazisti e i loro alleati fascisti. Ma non è andata così. La nostra guerra interna è stata combattuta soltanto da due minoranze: quella antifascista e quella legata alla Repubblica sociale. E quest’ultima, soprattutto nelle grandi città dell’Italia settentrionale, era più robusta della prima». Quarta leggenda: la cosiddetta "zona grigia" (il copyright è ancora una volta di De Felice, per definire gli italiani che si mantennero estranei alla guerra civile) era molto più estesa di quanto non voglia l’agiografia. E ancora: è un mito, il quinto della lista, l’idea che la grande maggioranza della popolazione, soprattutto quella contadina, fosse schierata tutta con i partigiani. Nella realtà, i piccoli proprietari erano diffidenti, e non di rado la diffidenza diventava rancore: «Quelli fanno i loro comodi, ammazzano un fascista o un tedesco, e poi scappano, lasciandoci nella bagna». E poi, perché aiutare i partigiani? «La guerra finirà non per merito loro, ma quando arriveranno gli americani e gli inglesi». La sesta leggenda, una delle più scottanti, concerne «i numeri dell’esercito partigiano». Esistono soltanto i dati della «burocrazia partigiana e della vulgata, la versione più diffusa della storia resistenziale», sostiene Pansa, raccolti «con lo scopo di accreditare l’esistenza di una forza davvero imponente», mentre le cifre andrebbero sostanzialmente ridimensionate. L’ultima finzione, la settima, investe un altro tema cruciale, l’unità politica della Resistenza: «Al contrario di quel che sostiene l’agiografia resistenziale, è sempre stata più formale che sostanziale». Non c’è solo la tragedia di Porzûs, massacro comunista di partigiani non comunisti. Sono infatti innumerevoli i casi di scontri intestini, delazioni, «giochi sporchi e rese dei conti brutali». E secondo Pansa «fa parte di questa storia negata un’altra pagina quasi sconosciuta: il lavorio continuo dei comunisti per garantirsi il massimo controllo possibile del movimento partigiano». Ci avviciniamo al clou: perché la tesi dell’autore è che questo controllo totale i comunisti «lo volevano in vista del secondo tempo del film: la conquista del potere in Italia con le armi e non con le elezioni». Ecco il punto. Perché è vero che i dirigenti politici e militari del Pci rappresentavano «il nerbo della Resistenza» e «senza di loro non ci sarebbe stata nessuna guerra di liberazione». Ma «i dirigenti comunisti guardavano al di là del 25 aprile. Pensavano al dopo. E si preparavano». Il fatto è che se si accetta il punto di vista secondo cui «per molti quadri del Pci la guerra di liberazione era soltanto un capitolo di una grande guerra europea prossima ventura», e che essi si consideravano «comunisti staliniani prima che comunisti italiani», c’è una conseguenza politicamente ingombrante. Vale a dire che sul terreno minato della Resistenza, e dietro gli eccidi post liberazione, rimane sul terreno anche l’immagine mitologica del Pci, l’autorappresentazione "gramsciana" di un processo continuo nella sua specificità di esperienza nazionale irriducibile all’internazionalismo e alla subalternità staliniana. Gli storici bollati come «guardiani del faro resistenziale» (riutilizzando la definizione di un antirevisionista come Sergio Luzzatto) obietteranno che le valutazioni di Pansa sono il frutto di una visione da cronista, che legge episodi frammentari e li irradia come prove coerenti verso una tesi in realtà non dimostrabile. Vale a dire che anche la sua è una tesi soggettiva. Pansa risponderà rivendicando la verità empirica delle storie da lui ricostruite, e la loro forza sovrana rispetto alle mitologie politiche. Di sicuro sarà difficile eludere l’"hic Rhodus, hic salta" dell’autore, il suo imporre nel dibattito un argomento da cui non sarebbe serio svicolare ricorrendo ai manierismi di una storia addomesticata dalla politica. Libro dalle molte sfaccettature, ora sgradevoli, ora scettiche, ora sconsolate, ma sempre con l’intenzione esplicita di connettere il passato storico a un presente politico, di riscontrare le implicazioni di allora sulla sinistra di oggi, alla fine "La grande bugia" può essere letto come un esorcismo per riportare la nostra storia nel solco della verificabilità storica, ossia, come dice Pansa, «per ridare alla Resistenza vera e agli uomini che la fecero ciò che è stato loro sottratto dalla inautenticità del costrutto ideologico». In questo senso occorre davvero fare i conti con il puntiglio da cronista dell’autore, con il suo scetticismo pragmatico, anche quando sembra infierire provocatoriamente: «La vulgata resistenziale ha sempre sostenuto che le città dell’Italia del nord insorsero contro i tedeschi e i fascisti. E si liberarono da sole, combattendo, prima dell’arrivo degli Alleati. Anche se qualcuno cercherà di smentirmi, sono convinto che non ci sia stata nessuna vera insurrezione». Oppure si può leggere questo libro come un complemento ai volumi precedenti di Pansa, un’altra raccolta di storie tremende dopo il 25 aprile: la più esemplare e simbolicamente efficace potrebbe essere la "guerra dei morti", lo scontro fisico fra madri di partigiani e madri di repubblichini nel cimitero di Casale Monferrato, un 2 novembre del 1945 che nella memoria appare quasi più luttuoso della guerra stessa: «Un parapiglia orribile, generato da dolori troppo recenti per essere sopiti. Lumini distrutti. Crisantemi spezzati. Tombe calpestate. Mia madre tornò a casa sconvolta». Ma se si prende sul serio la stringente logica interna della ricostruzione di Pansa, altro che libro "scomodo" o "revisionista": «È stata la sinistra a capire subito l’importanza della storia come arma politica per l’egemonia». E dentro l’egemonia culturale c’era il racconto della vicenda comunista come una storia di italianità antifascista, codificata da Gramsci e realizzata da Togliatti, mai messa in discussione dalla leadership comunista e postcomunista. La "versione di Pansa" incenerisce quest’ultima leggenda. Almeno fino al 1948 il Pci è stato un partito orientato al sovvertimento della democrazia. Il suo cambiamento avviene con la catastrofica sconfitta alle elezioni del 18 aprile, davanti a quella Dc in cui si era rimescolata la storia dell’Italia, con tutte le sue pieghe: «Fascismo, antifascismo, qualunquismo, voglia di democrazia, assenteismo politico, moderatismo, pulsioni egualitarie. E, durante la guerra civile, anche partigiani e fascisti della Repubblica sociale». Niente manicheismi, nella Dc, niente divisione netta fra «angeli di qua e diavoli di là». De Gasperi vince nel 1948 perché il suo partito ha capito che le democrazie moderne non si prestano alla divisione moralistica o ideologica fra il Bene e il Male. Adesso l’hanno capito anche comunisti ed ex comunisti. Si tratta di vedere se saranno anche capaci di rinunciare alla mitologia e fissare con occhi spregiudicati la realtà della loro storia. n

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