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La video tribù

30/04/2008

Per scrivere 516 pagine di un libro che si intitola "Contronatura", e che parla di una sovrarealtà, o di una ultrarealtà, che assomiglia alla realtà o eguaglia la metarealtà televisiva, bisogna essere convinti di avere nelle proprie corde la qualità essenziale del capolavoro. Massimiliano Parente ha scritto il voluminoso romanzo che Bompiani manda in libreria a maggio, ed è evidente che ogni pagina, e anzi ogni riga di questo progetto letterario, di un autore 38enne, trasmette l’idea che siamo finalmente in presenza di un’opera d’arte fondamentale, un colossale "Meisterwerk" che guarda alle grandi avanguardie dei decenni centrali del Novecento e a esse si richiama, programmaticamente: nella fluvialità, nell’andamento, nel ritmo, nella perdita del centro e forse anche dell’io, sottoposto alle ingiurie dello zapping. Come dichiara l’autore, «trattandosi di opera d’arte e non di prodotto giornalistico o d’intrattenimento narrativo», non vale la pena di trattarlo come un semplice romanzo a chiave, e cercare di decifrare chi sia Naike Porcella, o Mayara Vita, o Scarlett, o Madame Medusa, o una qualsiasi delle figurazioni che compaiono nel libro, compreso il "Parente" che si sovrappone feticisticamente e con deliberati effetti narcisistici all’autore del romanzo. Sicché, data la mole e l’ambizione, occorreranno letture approfondite e analisi criticamente avvertite per definire lo spessore culturale e letterario di questa prova narrativa. Ma intanto, sembra evidente che "Contronatura" (si racconta di uno scrittore che vuole diventare un autore tv e che per mettersi in luce combatte la tv, ma è solo un pretesto per parlare d’altro) propone una tesi, e una tesi anche eroica, se non si capisce male: vale a dire che la realtà apparentemente contronatura della televisione è l’unica realtà oggi disponibile. È certamente possibile che Parente non approvi affatto questo verdetto. Ma prendiamolo per buono, non foss’altro che per utilità pratica. L’argomentazione infatti è eccitante perché contraddice le tesi a cui più o meno ci si era abituati nell’era televisiva precedente. Vale a dire: fra la società nel suo insieme, cioè fra le immense platee televisive «implose nella privacy» (secondo la definizione del filosofo Carlo Galli) e l’universo televisivo conosciuto si è instaurato da tempo, e probabilmente fin dagli albori della tv negli anni Cinquanta, un rapporto di interazione, in cui l’una e l’altra, società reale e società televisiva, si rafforzano a vicenda. La televisione legge, o meglio "vede", ciò che si manifesta nella società, se ne appropria e lo enfatizza a dismisura, riproiettandolo sulle comunità che si specchiano nel piccolo schermo, in un processo infinito, che porta alla creazione di mostri, al di qua e simmetricamente al di là del diaframma a cristalli liquidi. Questo schema era discretamente affascinante perché consentiva di leggere razionalmente e ragionevolmente l’evoluzione sociale e televisiva. Vedevi i freak della tv, e capivi il processo imitativo che si innescava nella società, che a sua volta rafforzava le identità dei mostri in televisione, in una moltiplicazione senza fine. Ma adesso il paradigma potrebbe essere dimezzato. Esiste soltanto la realtà televisiva. Come nel mito platonico della caverna, le nostre vite sono soltanto pallide ombre gettate dalla luminescenza del plasma televisivo. Il passo avanti è clamoroso, a quanto si direbbe. Secondo questo schema, ogni aspetto della vita reale degrada allora a tenue imitazione della verità. Vero, e forse più vero del vero, è il tatuaggio dei capelli di Silvio Berlusconi sul suo cranio liscio, il lifting e l’esplosione del seno delle ipermaggiorate destinate a una vita da veline e da una sopravvivenza esistenziale a base di markette; veri sono gli ultracorpi che sarà un problema smaltire, a suo tempo, data la produzione inevitabile di diossina nella cremazione. Vero è il linguaggio degradato dal romanesco, «ho dimentigado le parole», il tappo di sughero sulla calvizie, i labbroni da pornostar grazie al filler, gli zigomi in cui si intravedono le protesi, la sessualizzazione iperbolica di qualsiasi ospitata. Non ci si misura più con "competitor" nella realtà quotidiana: ci si confronta con l’unica realtà consentita, il riverbero di uno studio televisivo. E quindi ci si ritrova davanti a un’estremizzazione parossistica della vita, del gioco, della sessualità, dell’erotismo e del godimento: certo, nella vicenda televisiva concreta non si vedono gli «orgasmi spaventosi» che Madame Medusa descrive in via epistolare rivolgendosi al «mio adorato Parente». Ma è come se ogni immagine televisiva fosse un’allegoria in minore dell’esplosione erotica a cui il Parente reale si riferisce. Sottinteso: dietro le immagini di ogni ragazza che compare in scena, con un abitino striminzito, uno straccetto che lascia vedere quasi interamente le cosce e le tette, dietro la sineddoche del reggiseno in vista di Simona Ventura in "X Factor", c’è un invito a trattare la realtà come puro universo di segni e miti pornografici. Piccola conseguenza: la realtà così comunicata, anzi, l’idea di normalità così trasmessa è un’esistenza in cui è fisiologico strafarsi di coca, acquistare una pasticca di ecstasy (secondo la registrazione fenomenologica effettuata da Francesco Bianconi dei Baustelle: «Charly fa surf, quanta roba si fa, mdma», dove quest’ultima sigla è il principio attivo della droga da discoteca, praticare il sexual harassment come unica forma plausibile di corteggiamento, convocare una partouze con due o tre puttane in quanto modalità sbrigativa e perciò efficiente, di gratificazione sessuale. Che poi questa ultrarealtà sia comunicata solo per indizi, o per sintomi e allusioni, non cambia nulla. Basta un minimo di sensibilità cognitiva per decifrare in un programma di intrattenimento per famiglie il contenuto di trasgressione estrema che lo permea, di violenza, di oltraggio, di profanazione. La televisione è il male: solo che questo male è il nostro mondo, l’unico in cui siamo inseriti. Possiamo frantumarlo e consumarlo per detriti, per esempio su YouTube, oppure possiamo sperimentarlo selettivamente, individuando aree di interesse specifiche ("programmi", o "trasmissioni", avremmo detto una volta), con un uso parossistico del telecomando, in un processo di decostruzione continua e proliferante: tuttavia l’ultrarealtà televisiva tracima dallo schermo, e si spande nella vita quotidiana come dato reale. Tutti noi ci misuriamo ormai con il look di chi compare in video, paragoniamo noi stessi al carisma sessuale di un conduttore o valutiamo con ferocia il potenziale sessuale di una soubrette scocciata su una poltrona. Per questa ragione, l’eccessivo romanzo di Parente non va letto come un esercizio narrativo: piuttosto è una prova di sociologia ultrà, un attentato dadaista alle scienze empiriche. Si definisce un’oltranza di realtà, e la si descrive in tutte le sue dimensioni, apparentemente vere o del tutto immaginarie che siano. È un mondo che sostituisce il mondo. Con la complicazione fastidiosissima che neppure cambiando canale si cambia la realtà, come credeva l’idiota di Peter Sellers in "Oltre il giardino", impugnando il telecomando contro i suoi aggressori; e neppure spegnendo la tv cessa il sortilegio televisivo, perché dalle antenne e dai satelliti, dai cavi, da Internet e dalla banda larga, dall’analogico e dal digitale, l’esito che proviene è uno solo, e cioè che la televisione siamo noi, e noi siamo la televisione. n

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