Parliamo con Walter Veltroni poco dopo che Franco Marini ha conquistato il seggio più alto di Palazzo Madama, affiancando Fausto Bertinotti al vertice delle Camere, ponendo fine a una impasse piena di inquietudini per il centrosinistra, e subito dopo la cerimonia con cui le autorità italiane hanno accolto a Ciampino le salme dei militari italiani uccisi nell’attentato di Nassiriya. Sentimenti contrastanti, quindi, mentre il popolarissimo sindaco di Roma si sta preparando al rush che lo riconfermerà al Campidoglio: il suo antagonista, Gianni Alemanno, sembra rappresentare più una candidatura di bandiera che non un’alternativa politica reale. Anzi, il fatto che l’ex missino Alemanno rappresenti una posizione di frontiera, sul margine estremo dello schieramento della Casa delle libertà, ha già determinato effetti imprevisti nel centrodestra, come la nascita della lista "Moderati per Veltroni", creata da Alberto Michelini, membro dell’Opus Dei, che alle elezioni politiche del 9 aprile era candidato per Forza Italia. In ogni caso, Veltroni rappresenta un unicum nel panorama dell’Unione. Forse la sola personalità politica che nel futuro potrebbe rappresentare un autentico scatto in avanti "postideologico", una risorsa politica in grado di dare un impulso originale all’evoluzione politica del centrosinistra. Il possibile protagonista, come sta dimostrando con la sua azione in Campidoglio e con il consenso che raccoglie nella capitale, di un salto culturale di cui l’Unione ha un bisogno essenziale. Quando dice «noi», sembra infatti riferirsi non soltanto e generalmente all’Unione, ma a una specie di Camelot romana, dove con la sua "band of brothers" sta sperimentando un metodo di governo e il paradigma possibile del centrosinistra futuro. Sindaco Veltroni, qual è la sensazione che si prova di fronte al primo passaggio politico della legislatura? Al Senato è sembrato che l’Unione rischiasse di incartarsi, e avesse successo l’offensiva della Cdl tesa a dimostrare che c’è una prospettiva di ingovernabilità. L’elezione di Marini risolve tutto? Le nuvole si sono dissolte? La strada è già in discesa? «In questo momento c’è la sensazione consapevole di essere usciti finalmente dal collo dell’imbuto: eravamo in una condizione di sospensione, di incertezza, dentro una transizione che sembrava non finire mai. Ora, dopo tutte le polemiche innescate da Silvio Berlusconi, dopo accuse che ormai appaiono infondate, torniamo dentro la realtà. L’elezione di Bertinotti e Marini, la soluzione del puzzle di Camera e Senato, fissa ufficialmente il momento del cambio di fase politica. È un processo speculare: si chiude un’epoca segnata dal centrodestra e nello stesso tempo si apre quella sotto il segno del centrosinistra. In questa specularità si manifesta il cambiamento, la sensazione che la politica ha preso un’altra direzione». Una specie di momento storico per il nostro paese e per il centrosinistra. E quindi impegnativo. Forse troppo, per un’alleanza variegata come l’Unione. «Siamo davanti a un crinale, a una prova decisiva per il riformismo. E questo deve indurci a ragionare con passione e insieme con freddezza. Un momento simile non accadrà mai più, e non ci sarà un’opportunità come questa». Di fronte a questa occasione come deve porsi il centrosinistra? «C’è innanzitutto la necessità di un accertamento rigoroso delle condizioni in cui il centrodestra lascia il paese. Noi siamo convinti, anche adesso, fuori dalla campagna elettorale, che l’Italia è in uno stato drammatico, come il presidente Ciampi ha confermato con le sue parole il primo maggio. Non è questione di propaganda politica, o di disfattismo, di "declinismo": bisogna guardare i conti veri, e valutare qual è stato l’effetto delle politiche del centrodestra. Il sospetto è naturalmente che la realtà sia molto peggiore dei dati ufficiali. Siamo abituati a faccende del genere: quando Marrazzo è entrato alla Regione Lazio, ci ha messo niente per accorgersi che il deficit della sanità era il doppio di quanto dichiarato». D’accordo, ci vuole la "due diligence". Ma non si può governare recriminando, come ha fatto per cinque anni il centrodestra. «No, dobbiamo dare subito l’idea del cambiamento. E dobbiamo darlo in base a due profili. Il primo, quello della sobrietà. Il secondo, quello del rapporto con il popolo». Addirittura il popolo. «Mi lasci spiegare. Sulla sobrietà dovrebbe essere facile intendersi, dopo cinque anni di berlusconismo: mi riferisco a uno stile di governo, basato su un’idea sana della politica. Non è vero che i cittadini rifiutano la politica: accettano invece facilmente una politica lieve e alta, lieve e non invadente, con partiti non intrusivi, i quali devono capire a fondo la relazione del tutto nuova che la gente chiede alla politica. Tutto questo si deve vedere nella scelta degli uomini, nella ricchezza delle competenze portate in politica, nella terzietà come valore». Che cosa intende con terzietà? «Ci sono aree e settori della vita pubblica che devono essere sottratti all’occupazione della politica e alla logica dello spoils system. In questo senso la terzietà è un valore che va dalla Corte costituzionale al servizio pubblico televisivo, e che non può essere consegnata alla tagliola bipolare». E il popolo? «Vede, le esperienze più belle del centrosinistra, dei governi riformisti nelle democrazie avanzate, si sono basate su due pilastri: la capacità di unire crescita e modernizzazione, da un lato, a uno sguardo aperto alle opportunità e ai disagi, dall’altro. È questa in fondo la maggiore differenza rispetto al pensiero di Berlusconi, esemplificato dalla frase infelice sul figlio dell’operaio e sul figlio del professionista, e sulla sinistra che vorrebbe colpevolmente, a suo parere, portare il primo al livello del secondo. Ma è proprio così, noi siamo diversi, e vogliamo dare opportunità a tutti: anzi, oggi uno dei principi tradizionalmente più forti della sinistra, la tensione verso l’uguaglianza, va interpretato politicamente nello sforzo di abbattere le barriere sociali, nel costruire parità di occasioni, nel favorire la mobilità. Benvenuta una società in cui il figlio dell’operaio può competere con il figlio dell’avvocato, non le sembra?». In realtà la destra accusa la sinistra di difendere privilegi e i cosiddetti diritti acquisiti, cioè una società immobile. «Potremmo rispondere che la destra vuole una società castale. Ma il punto vero è che noi, il centrosinistra, non dobbiamo avere paura della nostra idea di società. Io ho sempre diffidato di un riformismo "freddo". La fortuna della nostra esperienza di governo a Roma dipende da un’idea di modernità che non è centrata soltanto sulla città "connessa", su una comunità collegata a Internet grazie al wi-fi, ma anche sui centri di trattamento e di assistenza per l’Alzheimer, su un welfare che unisce politica pubblica e volontariato. Il riformismo che arriva vicino alla gente, che valorizza le opportunità, è un sentimento caldo, con un calore particolare per i cittadini meno avvantaggiati, che devono sentire la vicinanza del riformismo, la sua concretezza…». Ciò che lei definisce il «governo di prossimità». Ma non le sembra che finora, almeno fuori di Roma, il centrosinistra non abbia saputo offrire un messaggio culturale, un’idea di governo, nonostante l’ampiezza enciclopedica del programma dell’Unione? «Occorre comunicare alcuni messaggi, elementari ma centrali. Il primo: ci vuole una politica integrata sulla formazione e la ricerca. È essenziale far capire che dobbiamo girare pagina». Questo che cosa significa, ad esempio rispetto alla riforma Moratti, che molti a sinistra considerano regressiva sul piano sociale? «Premetto che non si può vivere nell’ossessione della destra, e quindi non penso che si debba abbattere tutto, perché non si può rivoluzionare le riforme a ogni legislatura: credo invece che sia necessario uscire dallo schema delle riforme a stralcio, a pezzi e bocconi. Senza un disegno complessivo non si va da nessuna parte. Ci vuole un disegno organico dagli asili nido all’università e alla ricerca, in modo che si veda l’intenzione generale di una politica. Certo, è più difficile, ma si tratta di un tema politico su cui ci giochiamo il futuro». Sulla formazione e la ricerca è arduo essere in disaccordo. Poi però ci sono le scelte che incidono sull’economia e cioè sugli interessi. E qui comincia il difficile. «Non è mia intenzione fare della retorica. Dobbiamo guardare la realtà, senza sconti. A Roma, tanto per dire, abbiamo definito la costruzione di campus universitari nei quartieri periferici della città, con un evidente doppio significato sociale, di connessione a due vie fra la ricerca e il concreto tessuto urbano. Quanto all’economia, comunque, sono convinto che il centrosinistra deve scegliere esplicitamente una prospettiva legata allo sviluppo sostenibile. Se pensiamo alla trasformazione che l’apparato industriale italiano dovrà affrontare, l’orizzonte della sostenibilità, e il tema connesso della qualificazione dell’ambiente, diventano centrali. Anche in questo caso, non c’è soltanto un enunciato politico. Noi abbiamo prodotto politica: ad esempio, abbiamo approvato una delibera simile a quella di Barcellona, secondo cui tutte le costruzioni nuove devono essere alimentate con energia rinnovabile, l’acqua per il 50 per cento e l’elettricità per il 30». Può darsi che Roma sia un laboratorio del centrosinistra. Ma si può proiettarlo sul piano nazionale? «Pensiamoci su: o noi scegliamo una specificità autenticamente italiana, che nel cambiamento della struttura economica punti esplicitamente sulla cultura e l’ambiente, oppure rischiamo di perdere il vecchio senza conseguire il nuovo. Ci sarà pure qualche ragione se nel turismo Roma cresce del 6 per cento mentre l’Italia cala simmetricamente della stessa percentuale. Più 6, meno 6: ma la crescita di Roma non è casuale, non è data solo dal fatto che noi abbiamo il Colosseo e la Fontana di Trevi. C’è stata una valorizzazione del tessuto urbano, iniziative come l’Auditorium, un lavoro continuo sulla specificità artistica e culturale della città, ma anche una tensione costante alla inclusione sociale e al recupero delle periferie». Sembra un’idea di sviluppo "leggero". Eppure il paese ha un deficit rilevante anche su aspetti pesanti come le infrastrutture. «Vero, ma anche un grande progetto sulle infrastrutture va concepito in chiave di sostenibilità, per trasferire traffico dal privato al pubblico; e inoltre le metropolitane, il trasporto pubblico, le grandi utility, insomma tutte le dotazioni infrastrutturali, vanno collocate su uno sfondo di sviluppo che faccia i conti con obiettivi sociali rilevanti, a partire dalla riduzione della conflittualità. Grazie al cielo noi non abbiamo periferie abbandonate a se stesse come quelle parigine; ma in prospettiva anche le infrastrutture vanno pensate come strumenti per una società che non esclude, anzi, una società volutamente inclusiva». Lei sembra convinto che l’economia è secondaria, rispetto ai grandi sentimenti collettivi. «No, l’economia è centrale, ma un paese vive se ci sono due segni più: più crescita e più integrazione sociale. Oggi il sentimento sociale può oscillare dalla paura alla speranza. La paura è il sintomo di una grande fragilità, il timore di perdere ciò che si ha. Il centrodestra ha investito su tutte le paure possibili, dall’immigrazione alla tassa di successione, dalla criminalità alla concorrenza cinese. Noi dobbiamo cercare di riprendere il filo tra le persone e una speranza, e quello che chiamiamo il governo di prossimità è il tramite che mette a contatto chi amministra con la vita reale delle persone». Si tratta di capire chi sarà in grado di proporre questa speranza. «Il voto del 9 aprile ha detto una cosa semplicissima, che moltissimi avevano capito da tempo, semplici cittadini, semplici elettori: ogni volta che ci date una casa più larga stiamo meglio». Il che significa che il Partito democratico è uno sbocco obbligato. «Naturalmente, ne sono convinto, l’ho detto in ogni occasione e lavorerò perché diventi una realtà. Tuttavia occorre essere coscienti che il Partito democratico non è la semplice somma di Ds e Margherita. Dobbiamo coinvolgere milioni di italiani che hanno voglia di partecipare a un’esperienza di riformismo realista». Oppure al realismo utopico del primo Blair, ispirato da un intellettuale come Anthony Giddens. «Sia come sia, è necessario che il Partito democratico nasca quartiere per quartiere, nelle città, nei paesi, raccogliendo i cittadini, i giovani, gli intellettuali, gli imprenditori, i lavoratori. Deve essere un partito leggero nella struttura, ma dotato di convinzioni forti. Guardi, voglio sbilanciarmi: credo che in prospettiva sia un soggetto politico che può diventare maggioritario, a patto che sia pluralista in campo etico e culturale. E intanto l’Ulivo, cioè l’embrione parlamentare del partito nuovo, rappresenta lo sfondo migliore e più rassicurante per il governo di centrosinistra, la sua base di consenso e il suo strumento parlamentare più efficace». E sul piano del riformismo costituzionale? Qualche osservatore avverte il rischio che la bocciatura della riforma della Cdl porti a una stagnazione del rinnovamento istituzionale. «Intanto bisognerà dire la verità all’opinione pubblica sui conti e chiarire quali politiche dovranno essere attuate. Sono convinto che in seguito, nella seconda parte della legislatura, dopo avere rimesso in linea di volo il paese, occorrerà trovare uno strumento di discussione con l’opposizione, un organismo ad hoc, un tavolo di confronto. Perché c’è l’esigenza di ricostruire un assetto istituzionale funzionante, a cominciare ovviamente dalla legge elettorale, cercando un buon equilibrio fra il ruolo delle assemblee elettive, la cui funzione di controllo deve essere rafforzata, e il potere da attribuire al premier. La mia convinzione è che un sistema elettorale e istituzionale che proietti sul piano nazionale la legge per l’elezione popolare dei sindaci sia un buon metodo. La formula per i sindaci ha cambiato il modo di essere delle città, che sono diventate motori di sviluppo, fonti di innovazione, luoghi in cui la responsabilità politica viene messa a confronto con il giudizio diretto dei cittadini». Ma si può fare una riforma condivisa con l’opposizione, dopo che per tutta la campagna elettorale il capo del centrodestra ha giocato alla guerra civile? «La società non è così divisa come appare, e neanche intossicata, avvelenata. Avvelenata semmai è la politica, e gli avvelenatori non sono mancati. Per questo credo che invece sia possibile trovare un metodo che porti a negoziati e accordi. È lo stesso concetto che ha ispirato la richiesta di un "pit stop" da parte di Luca Cordero di Montezemolo. Io farò il possibile per dare una mano. Una mano al Partito democratico, così come a un accordo per le riforme. Le due cose, secondo me, vanno avanti insieme». n
11/05/2006