Malgrado gli strombettamenti suscitati dal- l’"asse" fra Silvio Berlusconi e Tony Blair, non è detto che il futuro dell’Europa si dispieghi meccanicamente in chiave "americana". Qui in Italia è assai forte la tentazione per il governo di procedere alla spallata contro il sindacato: in questo senso, l’attacco all’articolo 18 sarebbe poco più che una prova generale. Ma grazie al cielo esiste ancora la politica, non soltanto l’applicazione di ricettari più o meno liberisti. E la politica tende a diventare sempre più una dimensione continentale. In Francia i socialisti di Jospin guardano alle elezioni presidenziali con fiducia, considerato il logoramento di Chirac. In Germania, Schröder e la Spd venderanno cara la pelle prima di lasciare il potere a una Cdu-Csu sempre più spinta sul registro conservatore. Quindi prima di stabilire che il cuore dell’Europa a venire sarà situato a destra occorre un po’ di pazienza. Se i due maggiori paesi europei, quelli su cui si è costruita l’Unione europea, continueranno a scegliere un governo di sinistra, l’effetto sulla tonalità politica complessiva non sarà irrilevante. Nel frattempo, è prematuro immaginare un’egemonia politico-culturale dell’asse Spagna-Italia-Gran Bretagna, tutta all’insegna di un modernismo economico e sociale che caratterizzerebbe questi paesi come l’avanguardia dell’Unione. Conviene sicuramente a Berlusconi occupare spazi pubblicitari per qualificarsi come elemento trainante di un’Europa tutta pragmatismo, "né di destra né di sinistra", insieme con Aznar e Blair. Ciò che resta da spiegare è la ragione per cui la nuova linea di sviluppo dovrebbe sconvolgere radicalmente il sistema di relazioni sociali su cui si è formato a partire dal dopoguerra il modello europeo di crescita. Tanto più che il leader di Forza Italia ha sempre rivendicato ufficialmente l’adesione a due schemi di fondo: la dottrina sociale della Chiesa (oggetto impreciso ma obiettivamente distante dai formulari liberisti) e la sua versione secolarizzata, vale a dire l’economia sociale di mercato codificata dalla scuola di Friburgo e applicata sul campo da Adenauer e Erhard. Dire come queste due costruzioni politico-sociali possano essere modulate attraverso l’attacco grezzo al sindacato è piuttosto problematico. Esiste un generale consenso sul fatto che il sistema europeo, dalla concertazione al welfare, debba essere riformato. Ma non c’è solo Romano Prodi a ricordare che la modernizzazione dell’economia europea va collocata entro una rete innovativa di garanzie. Per ogni diritto che invecchia o muore ce n’è uno da creare in funzione delle nuove condizioni in cui si esercita il lavoro e l’attività d’impresa. In questo senso la farraginosità programmatica della Casa delle Libertà, che mostra di pensare prima allo smantellamento dei diritti e solo in seguito all’attuazione eventuale di ammortizzatori sociali, è più che altro l’indizio di una mentalità improvvisatoria, sradicata dalla storia e non condivisa nemmeno fra i partiti del centrodestra. Come i gollisti, come tutti i grandi partiti popolar-conservatori europei esemplificati dai cristiano-democratici tedeschi, anche la Dc è stata (magari caoticamente) un partito "pro labour". Sembra perlomeno curioso che il suo erede laicizzato, Forza Italia, adotti tonalità minacciose verso il lavoro organizzato sindacalmente. Vero è che Giulio Tremonti ha sempre negato di voler procedere a pratiche di "macelleria sociale". Ma Berlusconi al vertice di Barcellona si è rivolto alla Cgil dicendo: «Scioperate pure, ve li daremo noi dei buoni motivi per lo sciopero». Il governo farebbe bene a considerare che l’Italia non è un’isola liberista nel Mediterraneo, e neanche qualcosa su cui praticare "in corpore vili" esperimenti thatcheriani. Così come non è detto che l’Europa abbia come unico orizzonte la vulgata liberista, non è detto neppure che per sollevare il tono di un governo mediocre sia obbligatorio procedere confusamente all’applicazione del manualetto anglosassone. Non si tratterebbe di modernità, quanto più modestamente di provincialismo.
28/03/2002