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L’Italia che canta è l’Italia che conta

02/03/2000

Chi vince? E chi se ne frega, chi vince. L’importante è esserci, farsi vedere, mostrarsi, sorridere. Farsi vedere anche da tutti gli sfigatissimi che aspettano assiepati sulla passerella sistemata davanti al teatro Ariston, e che non pagherebbero mai diecimila lire per un concerto dei cantanti in gara, ma siccome guardare è gratis fanno urletti quasi convinti quando riconoscono una faccia nota. Qui a Sanremo non è il caso di fare gli schizzinosi. Malgrado la nonchalance di quelli, fra i cantanti, che ostentano di disinteressarsi al risultato del voto delle giurie, dalla prestazione su quel palco dipendono carriere, rinascite, vendite, ricollocazioni sul mercato, presenze televisive. Se toppi lì, puoi uscire dal Barnum. Se ti va bene, ci puoi rientrare. La posta è elevata. E quindi tutti sono gentilissimi con tutti, con le radio minori, con gli scocciatori, con le telefonate in diretta delle casalinghe che dicono tranquillamente «sei un mito», e con quelle del padroncino di turno che fa chiamare dalla segretaria (ma forse è la moglie che dà una mano nell’aziendina) per poter dire a Gianni Morandi che ha tutti i suoi dischi, compreso l’archeologico "Go kart tuist". Complice un sistema di voto da delirio, un sistema a due turni prima con il voto popolare di una giuria Abacus e poi con una giuria "di qualità" che potrebbe ribaltare il giudizio del popolo, non si sa che fine farà Morandi. È arrivato da vincitore, sulla scia di una iperpromozione mediatica, con i giornalisti che hanno accreditato i boatos di un pezzo da leggenda, grazie anche alla produzione di Eros Ramazzotti, improvvisamente divenuto un genio della musica leggera: ma per non saper né leggere né scrivere il suddetto popolo ha detto boh. Il sistema di voto trova difensori convinti solo nella pattuglia Rai, nel suo Saccà-Maffucci, ma i loro argomenti sembrano una difesa d’ufficio del Mattarellum condotta da Casini o da Mastella. Conflitto d’interessi. Oltretutto dopo la prima serata i risultati del voto pop non vengono forniti (Fabio Fazio annuncia solo i primi tre della classifica, la bambola triste Gerardina Trovato, la bambola allegra Irene Grandi, gli scongelati Maria Bazar, senza un dato che sia uno), e i dietrologi cominciano subito a pensare a quali micidiali casini potrebbero combinare nella serata finale i giurati "de qqualità". Nell’attesa, ci si accapiglia sul poco: il sindaco di Sanremo, il forzista Giovenale Bottini, spalleggiato dal coordinatore nazionale di Forza Italia Claudio Scajola, litiga con la Rai perché la Rai non è andata a cena con lui. I cronisti se la prendono con Michele Serra perché ha definito la sala stampa una «suburra». Ma in genere tutti vanno d’accordo con tutti, si fanno i complimenti a vicenda, e quando si incrocia Sergio Bardotti, paroliere d’annata e membro influente della commissione selezionatrice, gli si dice che quest’anno il livello medio delle canzoni è molto, molto alto, così lui è soddisfatto. Si può vedere lo storico direttore di "Sorrisi e canzoni", Gigi Vesigna (di cui tutti hanno dimenticato la sfortunata avventura del "Telegiornale", il defunto quotidiano che aveva il vivente Antonio Di Pietro come garante dei lettori), che fa i complimenti ad Alice, stilizzatissima fino all’immobilità, e quest’ultima che familiarizza con i simil-amburghesi Subsonica, nel nome dell’avanguardia e della coscienza trendy. I popolari di fascia medio-bassa come Ivana Spagna, Mietta o Gigi D’Alessio fraternizzano fra loro, e si confermano a vicenda quanto sono bravi, perché la regola di Sanremo è che ogni cantante ha i suoi fan, e quindi va rispettato, come per una specie di patto consociativo o di Cencelli canoro. Nel frattempo la critica esalta gli Avion Travel, dei guaglioni stropicciati che ogni volta rifanno Napule in salsa brechtiana, e anche Samuele Bersani, forse perché ha presentanto una canzone che sfiora forse involontariamente il dodecafonico. Soprattutto, vanno d’amore e d’ac-cordo i Tre presentatori, Fazio, Pavarotti e Teocoli: anche se ci sarebbe da giurare che sulle note della sigla, il pucciniano e fatale "Nessun dorma" strillato da Big Luciano (ineluttabilmente definito da Fazio «la più bella voce del mondo», oh yes), qualcuno della Rai abbia fatto scongiuri. Perché mai citare il sonno di fronte a una platea di venti milioni di ascoltatori con l’occhio già cadente alla seconda apparizione delle gengive di Inés Sastre? Vanno d’accordissimo anche con Jovanotti, che mobilita energie di alta consapevolezza politica con un rap in cui, in quanto affiliato da tempi non sospetti a Jubilee 2000, chiede a D’Alema di darsi da fare perché si abbatta il debito dei paesi del Terzo mondo: «Presidente del consiglio io mi rivolgo a lei/ promuova un incontro del G7 e lo dica agli altri sei…». Già, eravamo quattro amici al bar. Quanto a Teocoli, alias Avvocato Prisco, alias Cino Ricci, alias Valentino Rossi che purtroppo è uguale a Cino Ricci, ormai è candidabile a tutto. Basta che ci sia un programma con una certa sfumatura di rischio o un certo rischio di flop, ed ecco Teo e le sue Macchiette. Infallibile. Ormai manca solo una candidatura a premier e poi è fatta: qualcuno ci pensi. Nel backstage, lo staff della Rai fa i complimenti alle tette di Alessia Marcuzzi, ride per i Fichi d’India, che sarebbero niente più che i nevrotici Brutos del Duemila, segue con complice compiacimento lo stile di Fazio e le sue timidezze, dicono, davanti alle telecamere. Dopo di che, uno si potrebbe davvero convincere che è tutta una Nashville delle ipocrisie, una enorme parrocchia precipitata fra noi dagli anni Cinquanta, e mediatizzata in modo compulsivo dalla complicità dei media. Ecco a voi il grande carnevale, con i sosia dei sosia, i nani, le ballerine, perfino la componente socialista rappresentata da Caterina Caselli e dal premiato alla carriera Tony Renis. E che fuori, nel mondo reale, la "gggente" abbia invece un occhio più critico, più disincantato, più scettico, insomma più normale o semplicemente più scocciato. Invece no. Lasciamo pur perdere che il Polo prenda sul serio le rapperie di Jovanotti e protesti aspramente contro il presunto "spottone" dalemiano. Ma se si accende la radio, e si ascoltano le telefonate della società civile, ci si può rendere conto che ormai il paese reale è infetto come la sua capitale Sanremo. Pochissimi che chiamino per dire, no, guardate, il festival è stato una vaccata, il re è nudo, Pavarotti sembra il nonno del Re di bastoni, e le canzoni oddìo. No, sono tutti omologati, figli del bipartitismo imperfetto Rai-Mediaset, pronti a fare da platea al Maurizio Costanzo Show, e quindi dicono compuntamente che il livello quest’anno era alto e che mamma mia è difficile scegliere, e che gli Avion Travel, ah che arte, anche se a loro piace di più la coppia tardissimo-trucidissimo-romantica composta per l’occasione da Mariella Nava e Amedeo Minghi. Ecco allora che se qualcuno pensava che solo là, nel paese dei fiori, esistesse il regno del conformismo, e delle mezze parole, e della conventio a non escludere nessuno, eccolo smentito. Le radio popolari che organizzano votazioni via Internet, cioè su un campione di pubblico tecnologicamente avanzato, fanno sapere che il più votato sarebbe il tradizionalissimo e non tecnologico Morandi. Insomma, la verità è che non c’è alibi. Non per stramenarla con il paradigma della sociologia da talk show secondo cui il Festival sarebbe uno specchio dell’Italia, o viceversa, ma il fatto è che Sanremo e l’Italia coincidono. Semplicemente. È l’Italia contemporanea che ha imparato a dire: mi piace questo ma non mi dispiace neanche quello, e complimenti per la trasmissione, auguri per il disco e saluti alla Marcuzzi. È l’Italia che dice «sono sereno» di fronte al rischio della galera o di fronte alla sconfitta all’Ariston. È l’Italia che canta, è l’Italia che conta.

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