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l’ombra di max

22/10/2009
ATTUALITA'
Pd / Lo scontro per la segreteria

Odiosamato. È un destino ironico per Massimo D’Alema: diventare il leader più temuto, accantonato, esorcizzato del Pd, e sotto sotto adorato, con un fremito di ammirazione e di terrore. Sembra infatti di risentire l’eco lontana delle parole di Palmiro Togliatti quando ascoltò il discorso di accoglienza del piccolo Pioniere: «Quello non è un bambino, è un nano». Oppure le battute del circolo dei prodiani a Bologna, intorno allo studio del Professore in Strada Maggiore: «Abbiate pazienza, sapete che basterà una battuta di D’Alema per affossare la carriera di Pier Luigi Bersani nel Pd». Una battuta? «Due righe sui giornali». Eppure la "guardia vieja" dei prodiani, prima Giulio Santagata e alla fine il meno allineato Silvio Sircana, ha scelto il realismo socialdemocratico di Bersani. A titolo di curiosità si può annotare che Santagata nel suo libro "Il braccio destro", dedicato ai "Quindici anni di politica con Romano Prodi" lo aveva sarcasticamente definito «il comunista più intelligente dell’Occidente». Ma allora che dire della regia del líder máximo, del più stimato e temuto dirigente postcomunista? Ci sono davvero le sue tattiche e le sue manovre, dietro la candidatura di Bersani? C’è un disegno, un progetto, un programma dalemiano per il futuro del Pd e più in generale per il centrosinistra? Calma e gesso. D’Alema ha l’aspetto di un magnifico sessantenne pepe e sale, che quando arriva agli incontri pubblici con il suo vestito chiaro sull’abbronzatura da skipper fa una magnifica figura da statista. Promana intorno a sé un alone istituzionale, un senso di serietà e di rigore: purtroppo è uno statista senza Stato, un leader senza esercito. Di lui si ricordano le vecchie battute al cianuro sulle «iene dattilografe», o ancora meglio sui due «flaccidi imbroglioni di Palazzo Chigi» (Prodi e Veltroni). Adesso, quando si lascia andare, può accennare, come ha fatto in una conversazione con "Il Riformista", al fatto che lo spessore politico di Bersani sia «incommensurabilmente superiore» a quello di Dario Franceschini. Incommensurabilmente. Un avverbio per segnalare una sepoltura politica. Ed ecco allora le accuse: zizzania, il solito incontenibile dalemismo, la spocchia e il furore. E nel frattempo il dato per morto Franceschini ruba la scena al presunto vincitore Bersani nel clima calduccio della convenzione, cioè del congresso piddino, con un discorso che era un comizio, fatto apposta per mettere un po’ di adrenalina nelle arterie addormentate del Pd e per chiarire che la battaglia durerà fino al 25 ottobre, giorno delle primarie, senza la resa preventiva che qualcuno aveva chiesto. Sicché le primarie, date per scontate nel risultato fino a qualche giorno fa, adesso sembrano tornate aperte, o perlomeno socchiuse. Bersani non sarebbe più il vincitore annunciato, Franceschini fa allegramente il movimentista antiberlusconiano, buttandosi dentro il clima della guerriglia civile aperta dal capo del governo. Nel frattempo D’Alema perfeziona il suo disegno politico, lo lima, cercando di adeguarlo alle condizioni della politica italiana, dove tutto è in subbuglio. Ma qual è il progetto? Fare come in Russia no, non se ne parla più. Ma fare come in Germania sì, il modello è quello. E non solo perché dalla parte di Bersani c’è Rosy Bindi, ovvero «la nostra Angela Merkel», come ormai dicono i suoi fan; ma perché il politico puro D’Alema ha alcune convinzioni ben chiare. Primo, dopo la caduta del maggioritario, e l’avvelenamento della politica nazionale con il premio di maggioranza, occorre puntare a un "bipolarismo dinamico", che consenta l’allestimento di coalizioni funzionali; insomma una politica più manovriera e duttile, in grado di dare spazio alla rappresentanza e di movimentare un sistema che altrimenti rischia di incepparsi di nuovo come nel bipartitismo imperfetto della prima Repubblica. D’Alema lo aveva detto poco dopo le elezioni del 2008, in cui la «vocazione maggioritaria» di Walter Veltroni si era schiantata contro l’Armada berlusconiana. Il rischio, secondo D’Alema, era che il centrosinistra si riducesse a una «minoranza permanente», con quel che segue: una scia di rancori e "rabbie" incapaci di misurarsi con l’attitudine al governo, e la coltivazione di nicchie emotive e simboliche in grado tutt’al più di soddisfare la vena sentimentale della sinistra. Ecco allora che il partito «solido» di Bersani, il modello «bocciofila», costituisce in prospettiva uno strumento in grado di elaborare strategie e alleanze per sbloccare il sistema politico. In primo luogo c’è da sviluppare un sistema di alleanze, a cominciare dal rapporto con l’Udc di Pier Ferdinando Casini: per arrivare alla maggioranza dei voti, occorre staccare pezzi di elettorato dal centrodestra, magari con gli ispiratori del grande centro come Luca di Montezemolo, dopo avere dimostrato che la politica economica e sociale di Berlusconi è stata e sarà elusiva, deludente, statalista, «dorotea». Mentre Berlusconi, per problemi suoi, è tutto mobilitato infatti sulle riforme istituzionali, dal processo penale alla forma di governo, dalla composizione della Corte costituzionale a quella del Csm, il ticket Bersani-D’Alema si concentra tutto sul governo dell’economia, e sulle sue ricadute sociali. Non è un caso che Bersani piaccia a un altro postcomunista classico, Giuliano Ferrara, anche lui amante della Realpolitik. Sono le affinità elettive che si fanno sentire di nuovo, anche se i problemi stanno aumentando. Il modello tedesco così caro a D’Alema si è frammentato alle elezioni di fine settembre, e il bipartitismo "corretto" della Repubblica Federale si sta modificando in modo tale da non costituire più un esempio per il nostro sistema politico. Ma questo per D’Alema non è un problema. È probabile che mentre Franceschini si aggrappa al bipolarismo, ai suoi occhi un sistema "multipolare" sarebbe benvenuto, per le soluzioni combinatorie che consentirebbe. Alcuni hanno già notato che la formula dalemiana assomiglia insidiosamente alla riapparizione del Pci sotto altre spoglie: il Pd sarebbe un partito di minoranza strutturale che fa da perno a un sistema di alleanze per poter conquistare la maggioranza elettorale. Un ritorno al passato. D’Alema direbbe alla "classicità" del fare politica. Ma c’è un altro elemento da considerare: a vedere come si sono schierati i principali leader ex Ds, D’Alema con Bersani, Veltroni e Fassino con Franceschini, si ha la sensazione di un duello infinito, che si svolge tutto dentro le stanze di un partito che non esiste più. Sembra la riedizione del film di Ridley Scott "I duellanti": anziani rivali che continuano a trovare ragioni per combattersi ancora, mentre tutt’intorno esplodono altre sanguinose guerre. Se poi si aggiunge che per Franceschini si è schierato anche l’ex sindaco di Bologna ed ex capo della Cgil, il "Cinese" Sergio Cofferati, si ha la sensazione di un D’Alema accerchiato, meridionalizzato, tutto sommato lasciato solo a combattere la sua battaglia neo-socialdemocratica. Regata "en solitaire", si direbbe. A meno che, naturalmente, Bersani non confermi alle primarie la vigorosa maggioranza percentuale ottenuta nel voto degli iscritti. Perché a quel punto occorrerà vedere se i due dioscuri avranno il coraggio di fare ciò che hanno annunciato. Il partito solido, la politica di manovra, il realismo nelle alleanze, il rapporto con la Cgil, la guerra di corsa nel mare agitato dell’economia. È l’esatto contrario di ciò che si è visto nell’epoca "leggera" del dopo Prodi. E toccherà al comunista più intelligente dell’Occidente riuscire a restare nell’ombra, a ispirare una politica senza ergersi a protagonista. Se gli va bene, per D’Alema si prepara una vita da padre nobile. n

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