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L’Ulivo ha 7 vite

04/11/2004

L’euforia è pericolosa. Anche se il leader annunciato, designato ma non ancora "primarizzato", Romano Prodi, ha lanciato il messaggio che è cominciata un’avventura meravigliosa, lo staff e l’entourage stanno prudenti. Certo, fa piuttosto impressione il sette a zero delle elezioni suppletive, e che un uomo odiato dal centrodestra come Roberto Zaccaria, l’autore di una campagna televisiva "criminale" contro la Cdl, espugni il collegio elettorale di Umberto Bossi. Champagne e un pensiero a Enzo Biagi: prosit. Tuttavia i sofisti dell’ambiente prodiano, abituati dall’esperienza a spaccare il capello in sedici, guardano i segnali e ne traggono auspici, se non contrastanti, perlomeno variegati. Positivi, se è vero che l’avere sbancato le suppletive conferma una tendenza ormai prolungata («Sono tre anni che godo ogni volta che si vota», come ha detto Piero Fassino in pieno orgasmo da schede uninominali). Più incerti, forse più contraddittori, comunque meno facilmente decifrabili appaiono invece i vaticini se si guarda alle condizioni politiche generali. Innanzitutto, negli ambienti vicinissimi a Prodi si osserva con un certo sospetto alle modalità con cui il "cappotto autunnale" è stato presentato dalla stampa e commentato da molti opinionisti. Quasi tutti i titoli facevano riferimento all’Ulivo, mettendo sullo sfondo la Gad, Grande alleanza democratica: «Evidentemente l’Ulivo ha ancora una risonanza emotiva, una qualità di sintesi immediata che la Gad non possiede ancora», dice Giulio Santagata, l’uomo che sta facendo i preparativi per la lunga campagna prodiana per il 2006. E aggiunge: «Dobbiamo stare attenti a non commettere l’errore delle europee, quando ci siamo praticamente dimenticati di valorizzare il simbolo "Uniti nell’Ulivo", con la conseguenza che gli elettori hanno dovuto compiere uno sforzo micidiale per trovarlo fra gli altri ventotto contrassegni, e un paio di punti probabilmente li abbiamo persi proprio per questo». Fra gli aspetti positivi, la crisi interna del centro-destra, che a questo punto sembrerebbe irreversibile. Come ricordano i sondaggisti, le decisioni di voto (e di non voto) sono il frutto di lunghi assestamenti. In questa fase si ha la sensazione che il giudizio degli elettori sulla Casa delle libertà sia particolarmente aspro e non scalfibile da trovate dell’ultima ora. Renato Mannheimer ha rilevato che la maggioranza degli italiani non crede al progetto di Silvio Berlusconi relativo al taglio delle tasse. Anche l’Italia di centro-destra non ha fiducia, e questo vuol dire che la coalizione berlusconiana ha perso credibilità. In un incontro riservato svoltosi a Bologna in cui i principali collaboratori di Prodi hanno fatto il punto sulla situazione politica, l’analisi ha messo in luce un elemento particolare. La discussione è cominciata prendendo spunto dall’articolo di Giovanni Sartori sul "Corriere della Sera", con cui il capofila della scienza politica italiana ha criticato l’atteggiamento del centro-sinistra: le elezioni si vincono al centro, era la tesi di Sartori, che citava le classiche analisi di Anthony Downs, mentre si sta diffondendo una "dottrinuccia" secondo cui conta l’intensità della mobilitazione e il recupero dell’astensionismo più che la capacità di strappare voti alla coalizione avversaria. In realtà, si è detto, la Grande alleanza deve fare uno sforzo straordinario per riportare all’ovile quei ceti e quei voti che nel 2001 si sono fatti attrarre dalle suggestioni berlusconiane, nella speranza che «il banchetto dei ricchi facesse cadere anche copiose briciole sul pavimento per i poveri». Se c’è una possibilità di smobilizzare l’ingessatura dei due schieramenti, di favorire una traslazione di voti fra destra e sinistra, conviene puntare su quel 38 per cento di classe operaia che ha votato per Forza Italia, e su quel 59 che tre anni fa ha scelto la Cdl. C’è un’Italia che oggi è in sofferenza, che vede fuggire dalle tasche i soldi per la benzina, che deve rifugiarsi negli hard di?scount per limitare i costi. Nelle grandi città ci sono segnali, ancora limitati ma avvertibili, che nella ricerca del basso prezzo il proletariato urbano comincia a rivolgersi ai negozi per i maghrebini. «Noi non abbiamo nessuna intenzione di puntare al tanto peggio tanto meglio», commenta Enrico Letta, «ma mi sembra evidente che si stanno fronteggiando due Italie: una che sente il peso del ristagno e dell’inflazione; e un’altra Italia che invece ha massimizzato i vantaggi del passaggio all’euro scaricando sui consumatori i costi o semplicemente speculando allegramente al rialzo». Sotto questo punto di vista, la politica di Berlusconi non sembra ottenere risultati significativi: il premier è superconcentrato su una soluzione "bushista", tagliare le tasse a tutti i costi, nella convinzione che questo genererebbe contemporaneamente ripresa economica e consenso politico. In realtà, guardando i dati europei, il nucleo di lavoro di Prodi si è convinto che il punto più alto della ripresa potrebbe essere già alle nostre spalle: e dunque in questo momento anche tutti i calcoli di Domenico Siniscalco, fondati su una crescita del Pil al 2,1 per cento, potrebbero essere già da rivedere. L’intero quadro delle compatibilità sarebbe già a rischio, anche senza attendere gli ukase di cui è prodiga l’Unione europea. Grande è la confusione sotto il cielo, con quel che segue, dunque. Eppure l’aspetto più delicato riguarda come al solito l’evoluzione dell’alleanza di centro-sinistra. Il ritorno di "Romano" ha dato un contributo positivo all’umore della coalizione, in parte perché il suo addio alla Commissione a Bruxelles è stato salutato da applausi convinti e bipartisan, che hanno dissolto le critiche precedenti, spesso pretestuose, e restituito a Prodi un’allure autenticamente europea; e in parte la semplice presenza in Italia è servita a ridimensionare tutte le fumosità neocentriste e neocomplottiste. Ciò ha consentito a Fassino di mettersi a lavorare per il congresso, senza il timore di manovre pericolose in corso. Il Professore è talmente sicuro di sé che si permette perfino di civettare sul suo destino politico, sollevando dubbi, giocando narcisisticamente sul futuro, commentano i suoi collaboratori. Eppure qualche spiffero gelido c’è, in questo avvio di autunno atmosfericamente caldo. Vengono tenute sotto osservazione le mosse di Fausto Bertinotti e non solo per le proposte fiscali che potrebbe partorire. Due settimane fa, dopo un convegno a inviti tenutosi nella biblioteca del Mulino, un imprenditore bolognese si è intrattenuto qualche istante sotto i portici di Strada Maggiore: «Stai attento, Romano, che in Confindustria quando si parla di Bertinotti si capiscono solo due cose: imposta patrimoniale e ritorno delle 35 ore». Prodi annuiva pensosamente. Ma l’attenzione dei suoi analisti di riferimento, e in particolare di Arturo Parisi, è attratta dal movimentismo politico di Bertinotti. Con il lancio, un po’ estemporaneo per la verità, di un nuovo soggetto politico capace di raccogliere tutta la sinistra al di là dei Ds, Bertinotti ha scompaginato qualche carta. Perché l’intuizione del segretario di Rifondazione comunista in sé è tutt’altro che peregrina. Le elezioni europee hanno dimostrato che esiste un’area esterna alla sinistra moderata, valutabile in un 12- 13 per cento. Questo mette in mano a Bertinotti due carte: la prima è quella più immediata, schierarsi contro Prodi alle primarie, e fare il pieno del voto pacifista, oltranzista, della sinistra radicale, degli insoddisfatti a prescindere. Il comandante Fausto ha svolto questa ipotesi con il sorriso sulle labbra, «una bella iniezione di democrazia», ma il pensiero che possa mettersi in tasca una quota importante del consenso di sinistra, un 20-25 per cento, è raccapricciante per l’establishment diessino. Soprattutto se a questa si affianca e si aggiunge l’altra carta: vale a dire il progetto del partito della sinistra alternativa, capace di attrarre verdi, Comunisti italiani, occhettiani, e magari anche qualche frangia del vecchio Correntone. Anche questa è un’ipotesi orribile per i diessini, ma in prospettiva è preoccupante anche per Prodi. Tanta fatica per tirare dentro Bertinotti, per costruire la coalizione larga, per garantirsi un futuro non conflittuale. Ed ecco che sulla parete che il centro-sinistra deve scalare si proietta l’ombra di un altro partito, e quindi di un’altra, più complessa, trattativa. Per il momento ci si gode il sette a zero, e la firma della Costituzione a Roma. Poi il lavoro riprende, e il messaggio è chiaro. Ragazzi, non perdiamo colpi: finora ci siamo occupati di faccende di condominio, d’ora in avanti dobbiamo pensare all’appuntamento decisivo. Senza nasconderci che potremmo trovarci davanti un’Italia disastrata. E che la fatica del 1996 non sarà nulla rispetto a quella in arrivo.

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