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L’ultimo referendum

25/05/2000

Comunque vada, domenica 21 maggio si chiude un’epoca. Sipario. Finisce la lunga stagione in cui si È pensato che l’intervento sulle regole potesse cambiare in meglio anche i contenuti della politica italiana. Si conclude con una rassegnazione malcelata, che sembra investire anche i promotori storici dei referendum, da Mario Segni a Emma Bonino. Stanchezza, disillusione, insofferenza. Oltretutto, dopo lo sfoltimento operato dalla Corte costituzionale i sette quesiti sottoposti alla consultazione hanno perso il carattere di un giudizio di Dio fra liberisti e antiliberisti. Anche per questo, i referendum residui hanno l’aria di sette nani politici. Quelli sulla giustizia sembrano lasciati al confronto tra corporazioni avverse, quelli sul sindacato e il licenziamento assomigliano a una partita tra la Confindustria e Cofferati. Neppure il finanziamento pubblico scatena passioni antipartitiche. Resta sul tappeto, a dividere le forze politiche, il quesito sull’abrogazione della quota proporzionale: ma l’emozione che il principio maggioritario suscitava nel 1993, allorché fu interpretato dai cittadini come una leva per scardinare i partiti della Prima Repubblica, è tristemente svanita. L’aspetto più preoccupante non riguarda nemmeno il grande dubbio relativo al raggiungimento del quorum. Concerne piuttosto la sfiducia verso lo strumento referendario e, in modo ancora più insidioso, verso la possibilità di trasformazioni incisive del sistema politico. Il comportamento di Silvio Berlusconi, autore di una lenta quanto amplissima virata dalla "religione del maggioritario" al miracolismo neoproporzionalista, un risultato (pessimo) lo ha ottenuto: quello di togliere consistenza e credibilità alla riforma elettorale, facendola diventare di nuovo oggetto di uno scontro fra i partiti. Altro che atteggiamento "bipartisan". I referendum, secondo il capo della "Casa delle libertà", sono una truffa, una malevola invenzione dei comunisti. Per potergli rispondere adeguatamente, bisognerebbe che i suoi avversari avessero le idee chiare, specialmente nel centro-sinistra. Perché l’approfondimento del sistema maggioritario non è un semplice mutamento regolamentare, che lascia tutti a mani libere. Il referendum ha un senso se si accetta una tendenza non tanto bipolare quanto esplicitamente bipartitica. Spiantato l’Ulivo, tentativo embrionale verso questa prospettiva, parlare di maggioritario non ha senso se non implica una riprogettazione di schieramento. Quindi occorre andare di nuovo al nocciolo, e sapere che non si vota per Veltroni contro Berlusconi, o viceversa per Fini contro i cespugli centristi: si vota per afferrare, probabilmente per l’ultima volta, la scia di un cambiamento di sistema. Se il referendum elettorale fallisce, tutta l’iniziativa finirà ancora una volta nelle mani dei partiti; e a quel punto sarà inutile lamentarsi della frammentazione, della conflittualità interna alle coalizioni, delle smanie centriste o neodemocristiane, e anche dell’impossibilità di completare la razionalizzazione del sistema politico. Detto questo, occorre dire che lascia ammaliati, se non sgomenti, la capacità di Berlusconi di politicizzare fino all’autismo ogni aspetto della discussione istituzionale. Il cavaliere ormai è convinto che il rifacimento delle regole non serve più. Quale sia il calcolo del leader di Forza Italia è presto detto: a suo giudizio il bipolarismo esiste già nei fatti, e quindi non vale la pena di legarsi le mani con alleanze troppo vincolanti, con partner egoisticamente orientati a chiedere seggi sicuri prima di avere dimostrato con i numeri la propria consistenza elettorale. Sull’onda di questo calcolo, Berlusconi ha abbandonato perfino i referendum su temi come la separazione delle carriere agitata dal suo partito contro i "giustizialisti". È sicuro di poter vincere le prossime elezioni con qualunque sistema vengano disputate. E perciò non vuole costrizioni. Il sistema ri-proporzionalizzato, oltretutto, aprirebbe opportunità deliziose: potrebbe favorire la caduta del confine fra il centro-destra e il centro-sinistra, consentire la formazione di un blocco neocentrista, che a sua volta potrebbe avvertire l’attrazione di un Polo trionfante. Non bisogna mettere limiti alla provvidenza. Ciò che dovrebbe stupire è l’incoerenza che regna nella Casa delle libertà. Il dissenso tra Fini e Berlusconi potrebbe essere archiviato come una diatriba accademica, ma ci ha pensato la tessera numero due di Forza Italia, Antonio Martino, insieme con pochi altri testimoni liberali, a rivendicare l’antica vocazione maggioritaria, e quindi a segnalare con visibile sconforto la mutazione genetica del partito. Pura testimonianza, probabilmente. Nella prossima campagna elettorale, lunga o corta che sia, che il governo Amato entri in crisi o no dopo il 21 maggio, il Polo e la Lega si ricompatteranno verso l’unico obiettivo che interessa a Berlusconi e ai suoi partner. Cioè la conquista del potere. Senza infingimenti di decoro istituzionale o di eleganza riformista. Ciò che è difficile da comprendere, piuttosto, è come mai una coalizione così contraddittoria come la Casa delle libertà possa ottenere i consensi che ha ottenuto il 16 aprile alle regionali. La risposta più semplice è che sia proprio l’ampiezza dell’offerta politica a soddisfare il pubblico: dove si trova una simile varietà di liberali e di antiliberali, di cattolici e di anticlericali, di europeisti e di nazionalisti, di moderati e di estremisti? Già, ma ciò che è funzionale alla raccolta del consenso potrebbe rivelarsi inadeguato sul piano del governo, come accadde nel 1994. A meno che il plebiscito berlusconiano nasca dalla convinzione cinica che, riconquistate le stanze del potere, il Polo si distinguerà proprio per l’assenza di governo: cioè perché lascerà via libera agli "animal spirits" delle partite Iva, dei padroncini, dei flessibili della new economy. Di tutti coloro che hanno una voglia matta di libertà intesa come il più sbrigliato "laissez-faire": di fronte al quale il voto al referendum, con il suo appello alle regole da condividere, potrebbe assumere il profilo non tanto di una speranza, quanto di un estremo antidoto.

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