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Mai più questa tivvù

13/05/2004

Martirio mediatico alla Rai per santa Lucia. Una liberazione, per i nemici. Scoppia una crisi extraparlamentare, che rimbomba nei corridoi della politica, a un passo dalle elezioni europee. Diagnosi di Aldo Grasso: «Le dimissioni di Lucia Annunziata fanno evaporare un fantasma, la presidenza di garanzia. Una finzione istituzionale, con l’assurdità dei quattro consiglieri che votavano regolarmente contro la presidente». Nella sua vita di studioso, Grasso insegna Storia della radio e della televisione all’Università Cattolica di Milano. Come massimo esperto della tv italiana, la sua competenza è segnalata da un’autentica summa, la "Storia della televisione italiana" (Garzanti), che in questi giorni arriva alla quinta edizione. In quanto spauracchio pubblico veste i panni del critico televisivo del "Corriere della Sera", ruolo che gli ha guadagnato rancori supremi. Siamo alla tragicommedia. Bonolis e il serial killer, quindi il duello a calci e a fiori tra direttore generale e presidente. Ma poi arriva il varo della legge Gasparri. Mettiamoci le dimissioni della Annunziata, e il sistema esplode. «Oppure implode. Ma prima di discutere della Gasparri o della Annunziata vorrei chiarire un punto essenziale. Parliamo del sistema televisivo. Dei programmi, del pubblico. Chiariamoci le idee, perché la politica non è tutto. Ad esempio, sappiamo che lo spettatore medio italiano è tendenzialmente donna, oltre la sessantina, livello di istruzione elementare, con un addensamento più forte nel Mezzogiorno. Quindi il primo aspetto da mettere a fuoco è l’evidente scollatura fra il paese reale e l’audience. Le due realtà sono assai differenti. Si dice "pubblico" ma è un’entità che non conosciamo: il pubblico televisivo non è l’Italia». Quindi risulterebbe esagerata anche l’attenzione della politica per la tv? «La partita elettorale si gioca su queste fasce, ed è per questo che la tv ha centralità politica. Ma qui occorre isolare due aspetti. Il primo: per almeno 25 anni la televisione è stata effettivamente al centro del paese. Era fatta da borghesi per i borghesi, gente con la maturità classica che si rivolgeva ai propri simili. I dirigenti della Rai se ne fregavano delle masse popolari, andavano diritti per la loro strada». Ma quella è l’epoca del monopolio. «Con l’avvento della televisione popolare c’è stato un ricambio fortissimo: niente cultura liceale, non siamo più nel salotto buono. Andiamo in cucina, in lavanderia, nella stireria. Se prima eravamo nei centri storici ora ci buttiamo nelle periferie». E il secondo aspetto della grande trasformazione televisiva? «Dall’universo simbolico del consumo culturale passiamo al consumo materiale. Prima c’era il mondo delle idee, l’invenzione dei programmi. Poi subentra l’universo concreto del consumo: la televisione diventa un tramite per connettere le immagini con i prodotti. E lo stesso pubblico viene "consumato" come oggetto della pubblicità. Ciò significa fra l’altro che la tv non rientra più al mondo dello spettacolo. Si va in tv come gente comune, non in quanto professionisti dell’intrattenimento. Il piccolo schermo si avvicina moltissimo alla vita». Conseguenze? «Per la Rai, le ripercussioni sono distruttive, perché le tolgono la ragione sociale, ossia la possibilità di invocare il servizio pubblico come missione. In realtà, la Rai non aveva una tradizione propria, come la Bbc: la sua linea primaria consisteva nella contiguità con la politica, e il servizio pubblico si risolveva in una spartizione fra i partiti e in un trattamento paternalistico del pubblico. Per la sua centralità politica, la Rai equivaleva a un ministero». Ma fuori dall’informazione, nell’intrattenimento, la qualità era elevata. «La professionalità era grandissima perché all’inizio la Rai ha pescato nel cinema, nel teatro di rivista, nella radio, in tutti i settori dello spettacolo. Un intero repertorio di capacità è stato portato in tv. Tanto per dire, il "Musichiere" era firmato da Garinei e Giovannini, e i registi degli show storici, come Antonello Falqui, avevano alle spalle il Centro sperimentale di cinematografia. Non diventavi regista perché eri, che so, il compagno della Carrà. Se c’è da rimpiangere qualcosa, di quella tv, non è il servizio pubblico, etichetta ipocrita su un contenuto al servizio dei partiti: è il tasso altissimo di professionismo». Non si confondevano gli ambiti, come con l’intervista con Donato Bilancia a "Domenica In". «Intervista sbagliata nel luogo sbagliato e nel momento sbagliato. Ma non dimentichiamo che, poche ore dopo lo scandalo, Bruno Vespa ha fatto un’altra puntata su Cogne. Va così perché c’è la guerra per strapparsi pubblico. In una trincea la Rai, nell’altra Ricci e Costanzo». Lotta senza quartiere per lo share prima ancora che lotta per il controllo politico. «La televisione era al centro della politica quando si confrontava con la classe dirigente. Adesso si confronta con i ceti marginali. Per questo non capisco bene la paura "politica" della televisione». Ma se si guarda al duello rusticano avvenuto fra Lucia Annunziata e il direttore Cattaneo si direbbe che una posta politica c’è, e che sia alta. «Il duello è stato un segno del malessere profondo che attraversa la Rai. D’altra parte, potrebbe non esserci, il disagio? Chiamano questi allestitori di fiere commerciali, che dopo sei mesi si piccano di parlare il gergo televisivo, come se la competenza si potesse inventare dal niente. E adesso si fanno decine di nomine che cambiano tutta la geografia interna della Rai. Un’operazione dal sapore elettoralistico in cui la figura peggiore la fanno proprio i quattro consiglieri. Dai quali ci si aspettava che risultassero un po’ più consoni al loro ruolo. Sono arrivati con i loro paramenti accademici o intellettuali, e hanno dato l’impressione di non aver capito che la democrazia vive di forme, e che le procedure sono sostanza». Il conflitto politico per la nomina e la destituzione del Cda dice che conta più l’idea del controllo politico che non la professionalità. «Con l’effetto che nell’ultimo Cda non c’era nessuno, Annunziata a parte, che sapesse una virgola di tv. La Rai si è trasformata in una holding che commissiona prestazioni a servizi esterni. Voglio il prodotto Endemol o il prodotto Magnolia: eccolo qua. Gli ultimi dirigenti televisivi capaci di interrogarsi sulla tv, sono stati Angelo Guglielmi e Carlo Freccero, alla sua maniera anarchica». Centralità politica o no, la Casa delle libertà si è impegnata allo spasimo sulla legge Gasparri. «Gasparri ha fatto la prima legge proiettata nel futuro televisivo. Le leggi precedenti, in particolare la Mammì, legiferavano sull’esistente. Erano come la regina che nomina baronetti i pirati». Vuole dire che le piace la Gasparri? «La fragilità intrinseca alla legge è che è costruita sugli interessi di Berlusconi». E qualcuno esce dal gruppo, come Lilli Gruber. «La Gruber è la sintesi del vizio classico dei giornalisti tv di buttarla in politica: Selva, Badaloni, Giulietti. Come ho detto, questo è il punto storicamente debole della tv italiana: la sua contiguità alla politica, e la prossimità dei giornalisti ai partiti. Tutto questo accettato senza nessuno scandalo, come pura fisiologia politica». Ma la tv può regalare una credibilità politica? «La Gruber è credibile, a suo modo, dal momento che oggi sta funzionando e pagando un giornalismo schieratissimo, che dà dei vantaggi: una parte ti odia, ma l’altra ti accredita». Risulterebbe credibile anche Bruno Vespa? «"Porta a Porta" è un tipo di giornalismo che non mi piace, perché mette insieme l’infotainment e la politica. C’è una contraddizione intrinseca. Si presenta come la "terza Camera", ed è nello stesso tempo il luogo meno credibile, con le soubrette come opinion leader. In sé è affascinante: l’istituzionalità più lo svacco. Irrita, attrae. Molto italiano, direi». Comunque da Vespa vanno tutti. Se è centrale politicamente ci sarà una ragione. «Vespa fa quel tipo di televisione che non riesce più a Costanzo. È l’interlocutore delle istituzioni, rappresenta il benpensante, incline ai vizi privati, che poi si presenta in veste ufficiale e dispensa autorevolezza». Mentre Costanzo… «Costanzo mi insulta e non so perché: mentre io gli garantisco che il giorno in cui non sarà più così potente lo difenderò». Siamo sempre davanti a una tv pedagogica, che vuole ammaestrare lo spettatore? «Quella tv vecchio stampo non esiste più. Oggi c’è una specie di pedagogia senza progetto, che dilaga in tutti i palinsesti. La tv di Maria De Filippi è molto pedagogica: c’è sempre il superamento della prova, in spazi spettacolari che sono coercitivi come collegi. Ogni trasmissione ha i suoi guru, come Paolo Crepet, o l’ideologo di Costanzo, Raffaele Morelli: figure che fanno sorridere le persone attrezzate culturalmente, ma che sono affascinanti per la fascia televisiva di bassa scolarità. Non c’erano mai stati tanti pedagoghi come adesso: prima c’era il professor Cutolo o il maestro Manzi, oggi ce ne sono cento». Neanche l’intrattenimento incanta. C’è Panariello, quello della tv "deficiente", e Fiorello, che forse non mantiene tutto quello che promette. «Su Fiorello si potrebbe aprire un discorso approfondito. Ragiono così: se "Studio Uno" avesse avuto Fiorello, noi avremmo avuto Broadway. Come intrattenitore è il più grande in assoluto, si muove con una padronanza straordinaria, sa fare tutto…». Che cosa gli manca? «Gli mancano Garinei e Giovannini, gli manca Falqui alla regia, gli mancano Scarnicci e Tarabusi per i testi. Però la scuola di Gigi Ballandi ha funzionato: Ballandi è uno che ti manda in provincia e ti migliora, ti valuta, ti fa mettere in scena il numero zero dello show, ti induce a correggere gli errori e a valorizzare i punti di forza. Se ne può trarre una considerazione generale. Nella tv italiana non è scomparsa soltanto la regia: c’è Beldì, è vero, forse l’unico che ha mantenuto uno stile, una personalità registica; ma è scomparso il numero di prova. Lo si è sostituito con il format, ma non è detto che funzioni sempre». Non si vede qualche novità di rilievo? «Le cose interessanti sono ormai pochissime. Paola Cortellesi è bravissima, ma, come al solito, il programma non la aiuta. Un bravo autore e un bravo regista la correggerebbero, rendendola meno ansiogena». Resta il mistero del ritorno della fiction. «Anche questo sintomatico. "Elisa di Rivombrosa" era recitato male, girato al ribasso, con una storia così così. "Orgoglio" è un fotoromanzo. Ma è rivelatrice la composizione del loro pubblico, molto femminile, sopra i 55 anni, istruzione medio-bassa. Così scatta la connessione fra il prodotto e l’audience». E continua il successo dei reality show. «Detesto quelli con i "morti di fama", gli ex famosi che si riducono a gente comune per ritrovare la popolarità. Meglio il "Grande Fratello": la gente è comune davvero e non scatta il riflesso sadico verso la star decaduta». Dunque, la tv va vista sempre in relazione al pubblico che la guarda. «Il discorso riguarda anche la pubblicità. Perché non si capiscono almeno due cose. Primo, perché i pubblicitari fanno spot linguisticamente allusivi, sofisticati, sfasati rispetto alla cultura del pubblico di riferimento? Secondo, perché allora si investe in televisione, sul grande pubblico, quello che non cambierà mai un telefonino solo perché la tecnologia avanza? Mi sembra che l’investimento pubblicitario abbia uno strabismo formidabile. Vedi caso, uno dei pilastri della Gasparri era la liberalizzazione delle televendite: che invece sono l’equivalente elettronico del mercatino sotto casa. Molto più popolare. Più domestico. Molto più in sintonia con l’Italia televisiva».

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