A segnalarlo come un libro imperdibile era stata per prima "Alta società", la rubrica di mondanità, spifferi e metafisici gossip del "Foglio": il titolo era generico, "Marley and Me", l’autore un perfettamente sconosciuto John Grogan. Solo con qualche ricerca ulteriore si sarebbe appreso che Grogan è un columnist del "Philadelphia Inquirer", vanta una lunga esperienza giornalistica che gli ha procurato numerosi premi, e vive in Pennsylvania con la moglie e i tre figli. Si capiva facilmente che era la storia di un labrador, e quindi l’indagine ulteriore conduceva immediatamente agli amori del titolare non proprio occulto della rubrica, Carlo Rossella, uno dei testimonial di questa razza canina, proprietario e amico di un esemplare biondo di regale bellezza, Oliver "Waterfriend" Charlie. Ma con queste sintetiche informazioni non si poteva sospettare la fortuna del libro, che ha raggiunto i cinque milioni di copie vendute negli Stati Uniti, 750 mila in Gran Bretagna, 700 mila in Germania, 300 mila in Spagna. E adesso si aspetta il botto in Italia, dove è stato tradotto da Sperling & Kupfer con il titolo "Io & Marley" (sarà in libreria il 19 settembre). È facile predire infatti un exploit analogo anche da noi. Più difficile è spiegare il perché di un successo così deflagrante. Certo, questo romanzo-verità, o quasi verità, lascia emotivamente disarmati: racconta la storia di una coppia di giovani giornalisti, l’autore e la sua sposa Jenny, che a un certo punto della loro felice vita decidono di adottare un cucciolo. E quale cucciolo: un labrador retriever biondo, figlio di un bestione grosso come un toro, destinato a diventare un colosso muscoloso di 40 chili, inadatto a ogni disciplina, destinato a farsi cacciare dal corso di obbedienza a cui era stato iscritto e a mettere a soqquadro e a repentaglio la casa in cui entra e la vita intera della coppia. E ad accompagnare la storia personale di John e Jenny, condividendo le loro speranze e gioie, la nascita dei loro bambini, tutta la loro vita a Palm Beach in Florida, e poi in Pennsylvania. Ma tutto questo è pura normalità, fisiologia canina o cagnesca senza troppe invenzioni. Il Marley del libro è un cane "reggae", che si guadagna il nome dall’idolo scomparso dei rasta giamaicani, il mitico cantante Bob, la colonna sonora di una Florida in cui echeggia continuamente "Is this love that I’m feeling?". Un cane dotato di un’energia sovrannaturale, capace di accogliere con entusiasmo sfrenato ogni essere umano, esibendosi in una specie di violenta breakdance con la coda che sembra animarsi per agitare tutto il suo corpo, di mangiare qualsiasi cosa, da quantità formidabili di mango maturo alla cacca di gallina, dai pettini ai pannolini dei bambini, e poi di vomitare eventualmente tutto quanto sul migliore tappeto persiano: e soprattutto di guadagnarsi per motivi misteriosi, o forse fin troppo evidenti, l’amore incondizionato di tutta la famiglia. Chiunque abbia messo a fuoco l’identità dei labrador retriever, razza descritta intorno al 1600 a Terranova, dove i pescatori li usavano per tirare a riva funi e reti e per raccogliere il pesce che si staccava dagli ami, ha un’idea immediata di questo cane, animale d’acqua di pelo corto, dita palmate, grande nuotatore, riportista fenomenale, incapace di trattenere la felicità davanti a qualsiasi visitatore, pessimo (anzi inesistente) elemento da guardia. Meno facile è spiegare la "labrador-mania", di cui anche il libro di John Grogan è un riflesso. Certo, ci sono stati esempi particolarmente prestigiosi che hanno lanciato la tendenza labrador, in primo luogo Bill Clinton, ripreso a suo tempo in ogni weekend presidenziale mentre si faceva strattonare davanti all’elicottero della Casa Bianca dal suo diseducatissimo "chocolate". Ma più in generale c’è il fatto che nell’immaginario non soltanto americano il labrador si è fissato come "il" cane, la razza per eccellenza, la fisionomia che riassume l’essenza canina. Per le sue forme accattivanti, una specie di barile con le zampe; per l’affettuosità strampalata, per le buffonerie atletiche che riserva a padroni, amici ed estranei; per le sue doti di mangiatore inesauribile, con il suo stomaco da quattro chili di contenuto potenziale, e quindi la sua fame permanente, che lo espone a ricatti di ogni tipo. E ultimo ma non ultimo per la sua intelligenza da fascia alta della classifica canina; a cui si aggiunge una disposizione innata alla furbizia, che costituisce un ricatto permanente contro il rigore educativo e la severità dei proprietari. Perché il labrador è effettivamente un post-lupo, che mantiene tutte le caratteristiche di dominanza o di subalternità degli esemplari alpha o viceversa dei gregari, salvo il fatto che è un animale innocuo. Mentre le cronache sono spesso punteggiate dai misfatti talvolta feroci di razze come i pitbull, i rotweiler, i doberman, si può giurare che i labrador, insieme alla razza esteticamente cugina dei golden retriever, sono animali senza peccato originale. La ferocia degli antenati lupi è un ricordo; la loro "presa morbida", che deriva dalla selezione come animali da riporto, obbligati a rispettare la selvaggina destinata al padrone cacciatore, garantisce sulla loro non pericolosità. Il vivacissimo Marley potrà apparire «instabile come la nitroglicerina», carico come una molla, ma verso adulti e bambini risulterà più che altro un mostro di simpatia, al primo incontro; e poi un complice, uno zerbino su cui mettere i piedi, una coperta di Linus, un compagno di passeggiate. Occorrerà "emascularlo", per tentare di ridurre la sua carica ormonale, e quindi la sua vitalità inestinguibile; sarà necessario riempirlo di Valium o di altri tranquillanti per reprimere il suo terrore per i temporali. Ma nell’insieme resterà sempre un cane giocherellone, un pazzo buono, un compagno prevedibile anche negli accessi più tremendi di dinamismo. Per i proprietari dei cinquanta milioni di cani censiti negli Stati Uniti, la storia di Marley è risultata quindi una specie di epopea della caninità, apoteosi di un cane al quadrato. Facendo della sociologia a buon mercato, la "folla solitaria" di una società che vede svanire il dato comunitario proietta nel rapporto domestico con il cane tutte le aspettative di spontaneità, di immediatezza e di lealtà relazionale che non trova nei rapporti quotidiani. Oppure la psicologia di massa può soffermarsi su quel particolare tipo di relazioni non culturalizzate, quindi fisiche, materiali, "naturali", che l’animale cane innesca in coloro che sono modellati da rapporti molto formalizzati sui luoghi di lavoro e nell’anomia del condominio. Anche in Italia, i padroni dei sette milioni di cani "regolari" troveranno nella parabola di Marley, con la sua conclusione inevitabilmente tragica e commovente, tutta la sfera dei comportamenti e delle emozioni che la vita insieme al cane implica (d’altronde, che una nuova "sensibilità animale" sia lavoro è dimostrato anche da fenomeni editoriali inattesi, come il successo quasi da bestseller della raccolta di poesie "Animali in versi" di Franco Marcoaldi). Converrà aggiungere che la schiera dei proprietari di labrador, e quindi di apostoli di questa specie particolare di religione canina, è particolarmente qualificata. C’è la Lulù di Massimo D’Alema, ci sono gli esemplari biondi di Dolce e Gabbana, c’è il labrador di Antonella Clerici, quello amatissimo di Vittorio Emanuele (che il Savoia rimpiangeva durante i giorni della detenzione), i due cuccioli fatti crescere nel casale sulle Langhe da Domenico Siniscalco, il branco di Luca Cordero di Montezemolo cresciuto sulla collina bolognese di Pian di Macina. Per tutti loro, "Io & Marley" sarà la sintesi dello "spirito labrador". Come dice l’autore Grogan: «Scegliemmo la razza in base a un unico criterio: fascino». È l’attrazione generata da quel cane a renderlo affascinante e quindi sopportabile: «Marley era un divoratore di divani, un demolitore di porte a zanzariera, un dispensatore di saliva, un ribaltatore di coperchi di pattumiera. Quanto al cervello, lasciatemi dire che ha dato la caccia alla sua coda fino al giorno in cui è morto». Il risultato è che il libro finisce con la morte di Marley, dopo alcune mezze tragedie come la temutissima torsione dello stomaco: John Grogan scrive un articolo sulla morte del suo cane e viene sommerso di e-mail. «Mi scusi», gli scrivono, «ma il suo non può essere stato l’animale peggiore del mondo, perché lo era il mio». Gli scrive gente che conosce le doti di quegli esseri così singolari: «Lealtà, coraggio, devozione, semplicità, gioia». Va da sé che le pagine finali di "Io & Marley" sono una lettura che può dare fondo a intere dotazioni di lacrime. Anche perché un bel giorno, su un giornale locale, compare la fotografia di un cane proposto per l’adozione. Un labrador, biondo. «Mio Dio», esclama John Grogan. «È lui. È tornato dal regno dei morti». «Reincarnazione», dice Jenny. È il segno che l’avventura può ricominciare. Che in ogni labrador c’è Marley. E che come canterebbe il vecchio idolo del reggae, è davvero amore ciò che sento, anche se si agita pazzamente, anche se abbaia come uno sciagurato, anche se è, in tutti sensi, una bestia. n
21/09/2006