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Meglio Detroit che i berluschini

23/03/2000

MartedÌ mattina, quando i mercati hanno cominciato a ballare, e i titoli Fiat si sono inabissati, il big Deal con la General Motors ha cominciato paradossalmente ad assumere contorni più comprensibili. Nelle ore precedenti c’era stato un coro quasi unanime sulla storicità dell’avvenimento. Perché sembrava effettivamente che il management di Torino fosse riuscito a quadrare il cerchio: cioè a globalizzare l’auto italiana, con un accordo di respiro atlantico, mantenendo però le posizioni di comando in Italia. La singolarità di un patto industriale imperniato su una "competizione cooperativa" fra Torino e Detroit passava in secondo piano rispetto al sollievo generale per non avere assistito al verificarsi dell’ipotesi più traumatica, la "soluzione tedesca", cioè la cessione secca dell’intero settore dell’auto. In realtà, dietro lo schermo delle technicalities contrattuali, si nasconde una delle decisioni più essenzialmente politiche che Gianni Agnelli si sia trovato a prendere nella sua carriera. L’Avvocato aveva di fronte a sé il turbinare del Grande Gioco. Davanti al suo sguardo si stendeva l’orizzonte delle fusioni colossali, dei merger globali, la furia nichilista del capitalismo del Duemila. Avrebbe potuto prendere atto della tendenza, giudicare improbabile la capacità di resistenza della Fiat nel mercato totale, e seguire il consiglio degli iper-realisti. Vendere. Incassare i soldi della Daimler-Chrysler, passare la mano, uscire dall’auto e puntare su fruttuosi business alternativi. Poteva essere una prospettiva interessante per un bottegaio. Ma con tutto il suo soave cinismo, con tutta la sua capziosa nonchalance, Agnelli non è mai stato né un mercante né un padrone di bottega. È stato un politico purissimo. Nel corso della sua vita si è caricato di responsabilità paraistituzionali: ha incarnato lo spirito societario e aziendale come la maschera di un ruolo pubblico di governo. Poteva liquidare la Fiat, dopo averne festeggiato da poco il centenario? Poteva assumersi la responsabilità di abbandonare al suo destino l’azienda simbolo dell’Italia industriale? Sarebbe stata un’abdicazione. Una specie di fuga a Pescara con l’addio cinico dell’ultimo sovrano. Ragion per cui, giunto alle soglie degli ottant’anni, nel trovarsi a fronteggiare la scelta più drammatica della sua vita, l’Avvocato ha preferito ancora una volta l’immagine alla sostanza. Sapendo che questa volta immagine e sostanza potevano anche coincidere. Sotto il suo regno, non era possibile estinguere il simbolo di un primato morale. Se il Grande Gioco contemporaneo è uno scacchiere dove imperversano i parvenu dell’internettismo, gli inventori di escamotage tecnologici, gli effervescenti della telefonia, l’auto invece è la pesantezza novecentesca: la grande fabbrica, le relazioni con il sindacato, le masse operaie, le crisi e le rinascite che hanno coinvolto e scandito straordinari mutamenti sociali, politici e civili. In sostanza, sarebbe un esercizio certamente malizioso ma alla fine deludente considerare l’accordo con la General Motors alla stregua di un’acrobazia del management torinese per mantenere le posizioni. Si tratta evidentemente di un’operazione difensiva, di qualcosa che a suo modo delude le aspettative di quella gamma di operatori che si auguravano una robusta dose di pirotecnica finanziaria. Ma nello stesso tempo è anche lo sforzo maggiore che il Lingotto potesse produrre per non snaturare la Fiat. Paolo Fresco e Paolo Cantarella hanno puntato sul presente, nella consapevolezza che scommettendo sul futuro l’azienda torinese si sarebbe dissolta nel meccanismo globale. Una linea del genere non sarebbe stata sostenibile senza una regia carismatica. Basta prendere nota della determinazione con cui Agnelli espone i contenuti dell’accordo per valutarne la portata politica generale. Malgrado l’ormai notissima opzione di "put", «non ci passerà per la testa di vendere». Le voci di un disaccordo con Umberto presunto favorevole a una cessione integrale sono «una balla assoluta». Quanto ai livelli occupazionali, resi potenzialmente problematici dalla cooperazione nei motori e nella componentistica, non c’è «nessunissimo pericolo per la manodopera». Proprio quel superlativo, "nessunissimo" dà l’idea di sintetizzare il ruolo avuto dall’Avvocato nella vicenda. Non poteva, confessa al direttore della "Stampa", ritirarsi nell’isola di Tonga portandosi dietro miliardi di marchi.Quindi l’ideologia, se si può chiamare così, dell’accordo con gli amici americani Jack Smith e Richard Wagoner si identifica con esattezza sul profilo storico, politico ed esistenziale di Gianni Agnelli. È un sacrificio di qualche pezzo pregiato, che cerca lo stallo dato che non si può perseguire una vittoria esclusivamente economica e mercantile. Per questo, pur lasciando filtrare alcune riserve, la politica italiana ha dato il suo consenso, da Ciampi a D’Alema e Amato, da Berlusconi a Cofferati. Ha offerto il plauso a un proprio pari, al senatore a vita, al genio tutelare del capitalismo famigliare che ha deciso di interpretare con gesti sovrani la parte di ultimo campione di un capitalismo nazionale. Così, la soluzione dell’affare Fiat getta una luce inedita anche sul Gioco Piccolo, quello che ha portato all’elezione di Antonio D’Amato al vertice della Confindustria. Certo, la spettacolarità della caduta della candidatura torinese di Carlo Callieri è stata fuori dell’ordinario. Ma lo show di un insieme di settori imprenditoriali che sono riusciti a disarcionare il favorito e a insediare l’underdog sembra a questo punto soltanto l’altra faccia, quella domestica, dell’attacco al trono. Che sia finito il tempo in cui l’alto patronato torinese poteva fungere da supergiuria delle nomine è indubbio, lo hanno detto con brutale chiarezza i 96 imprevisti voti riversati dagli industriali sull’antipapa. Ma un’interpretazione tutta politicista, intesa come la revanche della destra e dei "piccoli" contro il politically correct filogovernativo della Fiat, non spiega appropriatamente il ribaltone di viale dell’Astronomia. Anche le sibilanti confidenze attribuite all’Avvocato («Hanno vinto i berluschini») non vanno interpretate come un’espressione di disprezzo ideologico verso gli esponenti del nuovo capitalismo tardoliberista. Piuttosto come l’esorcismo verso i rampanti, verso i ruspanti, verso l’inedita alleanza fra industrie ex pubbliche e i "nuovissimi", fra manager semi-privatizzati e kingmaker della marca di confine a Nordest. Verso coloro che hanno deciso insomma che per entrare nel gioco più grande occorreva sacrificare il re. Forse accorgendosi, tutti coloro, e forse non senza sod-disfazione aggiuntiva, che il regicidio confindustriale implicava non solo l’emancipazione dalla malleveria dinastica di Torino, ma la sconfessione di uno stile, di un approccio, di un metodo, perfino di un lessico. Concertazione, stabilità nelle relazioni industriali, o antipatia verso i temi della liberazione fiscale, abitudine ai disfunzionamenti sistemici del paese: tutto l’universo di pensiero torinese è stato scardinato. E soprattutto è stata sconvolta l’idea cardine dell’agnellismo: quella di un apparato industriale che ruota intorno e insieme alla Fiat, condividendone le scelte e dunque anche le designazioni. Questa rottura del sistema tolemaico significa implicitamente il ridimensionamento della stella fissa: in chiaro, la decisione che d’ora in avanti, nel Grande Gioco, ognuno può giocarsela da sé, senza patronati. Il sistema Agnelli alla fine, ha perso in Italia perché gli altri giocatori, Cesare Romiti in testa, hanno sentenziato che la regola torinese non occorre più, che è un intralcio, che conviene liberarsi di tutti i condizionamenti dettati dalle affiliazioni. E nel Grande Gioco prova a resistere, anziché ad attaccare o a smobilitare, per restare fedele non tanto alla logica d’impresa, bensì a una logica politica intrisa di tradizione. Può esserci, in questa scelta, l’eco di passioni aristocratiche che talvolta hanno sfiorato, sulla scia di ragioni stilistiche, l’etica civile; anche se oggi c’è da chiedersi se questa sfera di dignità e obbligazioni pubbliche, di fronte alla radicale anomia dei mercati, abbia ancora corso, e se abbia qualche chance.

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