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Meglio un’ora da dilettanti

16/11/2006

Molto, molto istruttiva e culturalmente benefica la messa in onda di "American Idol" su Fox Life, 43 episodi da un’ora l’uno. Ma è istruttiva per ragioni alquanto diverse da quelle sociologiche prevedibili. Prima di tutto, occorre sapere che "American Idol" è ciò che si definisce nel gergo tv un reality game show, o ancor meglio un "talent show". Si percorre il continente americano alla ricerca di bravi cantanti dilettanti, poi si fanno provini, eliminatorie, semifinali, finali. È un format che viene dall’Inghilterra, qualcosa che assomiglia ad "Amici" di Maria De Filippi, è risbarcato sul continente europeo in Spagna e in Germania, e insomma chissenefrega, la solita solfa dei reality che si reincarnano con maggiore o minore successo a seconda del karma, del pubblico di riferimento, dei protagonisti che emergono. Se va bene è la scoperta di talenti nuovi, se va male è peggio del karaoke. Fox Life trasmette la quinta edizione, che in America ha avuto punte di 30 milioni di audience, pubblicità venduta a 1,3 milioni di dollari per spot di 30 secondi. Per la cronaca, l’ultima serie è stata vinta da un contadino dell’Alabama, tale Taylor Hicks, ma naturalmente non è questo il punto. Vabbé che la vincitrice della prima edizione, Kelly Clarkson, ha spopolato vendendo milioni di dischi e ha partecipato a "American Dreamz" con Hugh Grant, ma neanche questo aggiunge molto alla solfa. Secondo un’idea fortunata e fiacchissima, guardare i provini e le selezioni aiuterebbe a capire nel profondo la società americana, e forse a spiegarci la "new right", i cristiani rinati, la politica dei valori, il ruolo della religione nella democrazia e altre amenità bushiste. Stories: "American Idol" funziona perché è una bella macchina spettacolare. I concorrenti si esibiscono per un minuto eseguendo canzoni famose e difficili, aspettando con ansia ma fair play il giudizio della giuria in cui troneggiano il Tecnico, la Buona e il Cattivo (nell’ordine, l’ex zuccheroso Randy Jackson, la sefardita Paula Abdul e Simon Cowell, molto british e bastardo dentro). Segue poi il giudizio finale fornito da telefonate e sms del pubblico. Ovazioni, divertimento, e doppiaggio non invasivo. Resta da capire qual è il segreto del programma. Ma è semplice: un dilettante americano canta meglio, più preciso e convincente, di un professionista italiano medio. Una questione di qualità, dunque. Provare per credere.

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