Il senso così ampiamente invocato della laicità dovrebbe ispirare tutte le considerazioni sull’aborto e sulle norme che lo regolano. E allora la laicità, una laicità senza aggettivi, né «sana» come auspica papa Ratzinger, né insana come forma di fondamentalismo antireligioso, potrebbe condurre all’idea che la legge 194 va difesa, ed eventualmente meglio applicata, nonché modificata e migliorata se occorre, perché nulla è eterno e immutabile; senza dimenticare le ragioni che condussero alla sua approvazione democratica, cioè la volontà di risolvere la piaga degli aborti clandestini, e le condizioni spesso ancora drammatiche, sul piano economico, famigliare, fisiologico, psicologico, che conducono le donne alla decisione traumatica di interrompere una gravidanza. Dopo di che, sarebbe bene anche mettere a fuoco l’idea tutt’altro che reazionaria secondo cui l’aborto non è una questione semplicemente sanitaria. Non è una questione igienica. E con ogni probabilità non è neppure una questione da affrontare in termini utilitaristici, basati esclusivamente sui numeri, ossia sul calo degli aborti praticati. Ancora: non è nemmeno, anzi non è assolutamente, un problema da affrontare in chiave di appartenenza o di schieramento politico: come molti aspetti relativi all’etica della vita, comporta scelte tutte personali, che trovano composizione nella saggezza delle leggi, oltre che nella coscienza personale. Proprio per questo sarebbe un fraintendimento grave assumere l’iniziativa di Giuliano Ferrara per la richiesta di una «moratoria» sull’aborto come una provocazione politica, una trappola per scompaginare il centrosinistra e il Partito democratico, scatenando le contraddizioni interne ai partiti e all’alleanza di governo. Di Giuliano Ferrara e del suo giornale si può pensare ciò che si vuole: ma è difficile discutere la sua capacità di agitare temi cruciali e scuotere opinioni e coscienze. Si pensi pure che si tratti di un atteggiamento perfino estetizzante, tipico di una personalità egocentrica, che si sente eccezionale e in grado di imporre i contenuti del dibattito italiano a proprio piacimento: ma tutto questo non sposta di un millimetro il macigno messo in campo. Perché di macigno si tratta. Anche i più laici fra i laici farebbero bene a riconoscere che è stato sollevato un caso culturale, che smuove o che dovrebbe smuovere gli intelletti e i sentimenti, e che dovrebbe portare a un confronto sulla base etica della nostra civiltà. Che lo abbia sollevato un provocatore reazionario, il direttore di un quotidiano finanziato dalla moglie del capo delle destre, il delatore della Cia, un individuo tremendamente "self centered", un ateo devoto e papista, non cambia proprio niente della sostanza del problema. Una volta detto ciò che andava doverosamente detto sulla legge 194, e dopo avere ricordato le debite rassicurazioni sulla necessità della prevenzione, sulla paternità e la maternità responsabile, sull’educazione sessuale e la necessità di un’informazione sufficiente sui contraccettivi, sarebbe il caso di prendere atto che in questo momento, da destra, viene un’offensiva esplicita sull’argomento della vita (sul "diritto alla nascita" così come contro l’eutanasia). Ebbene, sarebbe un errore stupido, e un’elusione, ripiegare nel riflesso difensivo e rifiutare il confronto sull’argomento sostanziale. Cioè sull’aborto, sulla vita, sull’etica. Abbiamo il diritto, razionale e civile, di appellarci alla legge, e il dovere altrettanto civile di difenderla contro distorsioni volgari e attacchi propagandistici; ma non abbiamo il diritto di distogliere lo sguardo e di addurre ragioni burocratiche di fronte a un dilemma morale. Vale a dire: di fronte all’aborto, come di fronte a qualsiasi atto che interviene sul terreno della biologia e della vita, siamo tutti nudi, non abbiamo protezioni o schermature ideologiche. Non c’è una correttezza politica o scientifica che detta verità assolute. Serve a poco dividersi fra chi sostiene un’idea di progresso e chi si ritrova in una visione conservatrice. Perché il dolore e la scelta sono trasversali, e toccano soltanto la sfera del giudizio personale. È questa la ragione per cui, a titolo del tutto personale, io penso che proprio per non lasciarsi espropriare di un tratto autentico di umanità, sia necessario non distogliere lo sguardo; che non convenga ricorrere stancamente agli stereotipi, che non serva a nulla elencare statistiche. Vale la pena di mettersi in gioco, e misurarsi con quell’argomento maledetto o disperato, con l’aborto, senza veli: con la propria cultura, la propria fede se per caso c’è, di sicuro con le proprie passioni e i propri sentimenti, e magari con le proprie stolide incertezze. Ma senza richiudersi nell’ovvio, perché di fronte alle domande fondamentali, quelle che ci interpelleranno sempre, l’ovvio non serve a nulla.
17/01/2008