Nel ciclismo contemporaneo è successo di tutto, a partire dal doping per proseguire con il sospetto perdurante, ma lo spettacolo del Giro d’Italia è sempre una bellezza, sia in corsa sia nel panorama. Non stupisce quindi che la corsa a tappe abbia dato luogo a libri belli e importanti (si possono ricordare fra gli altri il saggio di Daniele Marchesini "L’Italia del Giro d’Italia", ormai un evergreen, e il recentissimo Gian Luca Favetto "Italia, provincia del Giro", un resoconto avvincente anche sul piano stilistico, vissuto con partecipazione all’interno della carovana). Resta da capire allora se funziona anche la letteratura televisiva, se possiamo chiamare così le cronache quotidiane della corsa. Dopo anni di faticosa messa a punto, le cose vanno meglio. È vero che nei tempi morti Auro Bulbarelli non rinuncia talvolta a esprimere stupore, incredulità e meraviglia rispetto all’ordinaria amministrazione. Tuttavia è preciso, informato, conosce corse, crisi e miracoli di ogni singolo ciclista, campione o ultimo dei gregari, e lo individua alla prima occhiata. Il commento di Davide Cassani è come al solito supercompetente, e anche Silvio Martinello è diventato sciolto nel linguaggio ed efficace nella descrizione (a dimostrazione supplementare che il cliché del ciclista troglodita che dice «son contento di essere arrivato uno» appartiene alla preistoria). Un aspetto curioso delle telecronache di quest’anno è la perdita delle inibizioni rispetto allo "specifico ciclistico". Tutti sanno che le tappe sono lunghe e certi bisogni sono irreprimibili: si sa di leggendari giri persi per un attacco di mal di pancia. Ma in questo 2006 il tabù è caduto definitivamente. Si parla di continuo di corridori che si fermano per soddisfare alcuni bisogni "fisiologici", di attacchi di dissenteria che hanno spremuto questo o quello, di infiammazioni al "soprassella". Se si aggiunge che in certe tappe particolarmente impegnative si guarda con lieve inquietudine allo sforzo dei ciclisti in salita, attestati dai parametri cardiaci che appaiono in sovraimpressione, la conclusione che ne deriva è obbligata: il ciclismo contemporaneo è più che mai una disciplina del corpo. Che poi tutto questo sia sintetizzato dal mezzo etereo per definizione, la televisione, è una delle ulteriori curiosità di una modernità continuamente in bilico fra il passato e l’ultrafuturo, fra il materiale, l’immateriale e l’immaginario.
08/06/2006