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Moratoria sulla tv

17/01/2008

Qui si propone un’altra moratoria, ancorché frivola: quella della tv. Niente di drammatico e neanche di troppo impegnativo. Per dire, non una denuncia come quella di Karl Popper, ai tempi di "Cattiva maestra televisione", che proponeva una tv sotto tutela per evitare la dittatura dell’audience, lo scadimento dei programmi e di conseguenza la diseducazione bieca degli spettatori. E neppure l’esorcismo di Giovanni Sartori verso l’"homo televisivus", nuova configurazione dell’ideologia di massa e della caduta progressiva del saggio di qualità. Ogni moratoria ha bisogno di un manifesto. Eccone qui di seguito le linee di fondo. Siamo giunti al punto in cui si avverte la sensazione, suffragata indiziariamente dalla ricerca spasmodica di programmi evento come quelli con Adriano Celentano o Roberto Benigni, che ormai la tv sia al capolinea: quella generalista, almeno, che in Italia coincide con le reti della Rai e di Mediaset. Ebbene, i programmi, i documentari, la fiction, i film, l’informazione, i talk show e perfino la pubblicità, della televisione contemporanea sono finiti in un circuito autistico che li mortifica cristallizzandoli nella infinita replica di se stessi. Ormai è probabile che la tv non trasmetta neppure la tv, secondo quanto recitava il venerabile detto di McLuhan sul mezzo e il messaggio. Trasmette più verosimilmente stereotipi televisivi, frammenti e "cameos" dello "specifico tv", cioè del particolare linguaggio che si usa generalmente in televisione; e se va male invece emette detriti privi di significato, uno sfarfallio di immagini voluttuarie come nella televisione "celibe" di Gianni Boncompagni o del suo tardo emulo Fabio Canino. In conclusione, nella maggior parte del palinsesto il mezzo e il messaggio vengono amalgamati nel cazzeggio, produzione di luci a mezzo di luci, effetti fosforescenti proiettati sul nulla. È probabile insomma che il mezzo secolo abbondante della televisione stia completando un ciclo, al termine del quale nulla sarà più come prima neppure dentro gli schermi al plasma e a cristalli liquidi. In tutto il mondo avanzato lo schermo tv è stato ad un tempo lo strumento e il riflesso della modernizzazione sociale novecentesca. Ha accompagnato fenomeni colossali e processi globali come la crescita del mercato, il diffondersi dei prodotti di massa, l’affermarsi della cultura del corpo (qualcuno ricorda la gag di Roberto D’Agostino a "Quelli della notte", quando lasciava attonito Renzo Arbore con «l’edonismo reaganiano»?); e poi il modificarsi degli atteggiamenti fra uomini e donne, al cui culmine c’è per forza di cose la New York divertente e nichilista di "Sex and the City", come pure il propagarsi dell’estetica e dell’immaginario gay, reinterpretati in chiave consumista. In sostanza, ha centrifugato la "tarda modernità" di Alain Touraine in un composto fluido, nel blob totale della contemporaneità. Ma soprattutto, almeno negli ultimi venti-venticinque anni, ossia da quando l’offerta televisiva è cresciuta in modo esponenziale in tutte le democrazie sviluppate, la tv ha imposto uno stile nello "stare in pubblico". E questo stile si è affermato come l’unico stile possibile: il sorriso inevitabilmente smagliante, il dinamismo veemente à la Sarkò, l’ovvietà rilasciata sulla linea di minore resistenza con il gusto generale, in modo da fare scattare la claque automatica dell’ovvio: «Straordinario». Senza parlare dei "tempi" tv, per cui oggi qualunque discorso superiore al minuto "non è televisivo" (si richiedono invece come qualità essenziali le doti di sintesi, la capacità di ridimensionare a slogan ogni ragionamento complesso, eliminando qualsiasi sfumatura e portando all’apogeo la sintassi "paratattica", cioè costruita senza subordinate, senza ipotetiche, senza digressioni: tutte proposizioni principali, sostenute da congiunzioni "tattiche", anche sgrammaticate). La potenza della televisione (secondo l’immortale paradigma di Enzo Jannacci: «La televisiun la g’ha na forsa de leun») si poteva osservare nel gioco sociale di "specchi opposti riflessi" tra l’audience e i protagonisti televisivi: ovvero nella capacità della tv di raccogliere tutte le suggestioni e i segnali che affiorano nella società, per poi tradurli in un codice accettato, e trasmetterli di nuovo con una potenza impressionante alla società stessa, ansiosa a sua volta di adeguarsi al nuovo dettato. In questo modo, piccole trasgressioni estetiche e meno insignificanti trasgressioni etiche (dal piercing e i tatuaggi alle rivendicazioni pubbliche di scarti e devianze nei comportamenti erotici riconosciuti come regolari) venivano proiettate sugli spettatori, che a loro volta li interiorizzavano e li assimilavano, in un gioco di rifrazioni in grado di potenziare all’estremo un "segno" qualsiasi. Gli effetti sono stati presto spettacolari. Nella società sono diventati comuni, e alla fine bene accetti, quei comportamenti che tendono a integrarsi senza attriti con i "miti" televisivi. Il codice dell’innamoramento, che alla fine produce una concezione consumista dell’eros, secondo lo schema d’acchiappo calciatore-velina, è dilagato dai telefilm ai comportamenti generali. Il sacro totem dell’eterna giovinezza ha reso familiari i trattamenti per tingere i capelli fino agli henné più efferati, e ha fatto diventare un’ipotesi realistica per quasi tutti i trapianti più problematici (e non importa che si tratti di figure televisive o di protagonisti politici: i capelli di Paolo Limiti e Pippo Baudo valgono sotto l’aspetto tricologico l’epopea ferrarese del duplice trapianto di Silvio Berlusconi). Il mito dell’abbronzatura perenne, di cui è stato spesso vittima con sconvolgenti colori fra il cuoio e l’ocra Gianfranco Fini, è diventato uno standard, a dispetto del fatto che le riviste femminili di tendenza pubblichino almeno due articoli stagionali sui danni conseguenti agli eccessi di esposizione all’ultravioletto: degenerazione metastasica dei nei, crollo dell’impalcatura dell’epidermide, invecchiamento precoce, rughe e altri disastri assortiti. Soprattutto per le donne il look televisivo è diventato essenziale, se non obbligatorio, ai fini della costruzione, o più precisamente della ricostruzione, dell’immagine femminile privata e pubblica. Se il repertorio fondamentale della femminilità moderna è certificato dall’aspetto delle veline, va da sé che sarà accettabile e accettato, anche negli happy hour fra amici, o nei dopocena metropolitani, un certo tratto che si potrebbe definire "mignottesque": abitini leggerissimi sostenuti da spalline sottili, scollature formidabili sul davanti e abissali sul lato B, e nessun imbarazzo nell’esibizione della scosciatura, secondo il dettato filosofico della prima Alba Parietti. Così come ormai si è accettato che la bellezza non sia più un fattore assoluto, ma un insieme di compatibilità estetiche con il mezzo televisivo e i suoi codici: tanto che glicolici e botulini e filling e lifting talora sfacciati, e labbroni e gobbe zigomatiche spettacolarmente artificiali non vanno giudicati come mostruosità, bensì come tratti immanenti dell’estetica televisiva (in modo simile, la bellezza bionica di Carla Bruni era perfetta per la moda). Non è bello ciò che piace, è bello ciò che piace alla televisione. L’unica cosa che non piace, in tv, è il brutto, se non in telefilm specifici come "Ugly Betty"; tanto è vero che ormai le partecipanti a tutti i game show di prima serata sono graziose, una sfilata di bei volti, perché una volta eliminate le difficoltà dai quiz, negli studi televisivi non c’è spazio per le racchie. Ma forse dove il sistema televisivo ha mostrato la sua potenza in modo totale è stato nel definire il perimetro di ciò che esiste e di ciò che non esiste: dove ciò che esiste, naturalmente, è soltanto ciò che va in tv. In questo senso le conseguenze sono state imponenti per ciò che riguarda la politica, ma forse ancora più decisive per tutto ciò che si allinea sotto l’etichetta di cultura. Perché la televisione, per le sue stesse caratteristiche ontologiche, tende a replicare il replicato: e ovviamente più che l’idea o la riflessione conta il personaggio, la figura che si è imposta nello standard medio e nella conoscenza di tutti, la riconoscibilità immediata. Se volete il filosofo ecco Massimo Cacciari, se volete lo scrittore non conformista ecco Aldo Busi, se desiderate il critico irriverente ecco Vittorio Sgarbi. Non c’è da scandalizzarsi, per carità, ma la conseguenza è che se volete il lookologo arriva Diego Dalla Palma, per l’addestratore di cani è pronto Massimo Perla, e se qualcuno vuole il cartomante o il divinatore, ecco il Mago Othelma. E anche a buttarsi sulla nicchia, grazie al satellite, con programmi come lo show di David Letterman o di Jay Leno, ci si rende conto ben presto che in America la situazione non è molto diversa. Il senso più stringente della televisione consiste nel trasformare in freak i suoi protagonisti. È sufficiente mostrare abbastanza a lungo alcuni sconosciuti, come nel "Grande Fratello" per trasformarli in protagonisti, pronti per entrare nelle pagine dei rotocalchi di pettegolezzo e alimentare storie d’amore, di tradimento, di rimpiazzo, di ulteriore innamoramento, in una furibonda corvée post-alberoniana. Ecco perché ci vuole una moratoria. Non uno sciopero della televisione, non l’oscuramento o il boicottaggio dei programmi, non l’abbattimento luddista delle parabole e dei ripetitori. Ma piuttosto un movimento culturale che cominci a de-tivuizzare la realtà contemporanea e la televisione stessa. Sappiamo tutti che la televisione oggi è divenuta una commistione di informazione, reality show, fiction, senza che siano più rilevanti i confini tra i generi. La finzione dilaga nelle news, l’intrattenimento contamina i dibattiti, la manipolazione spettacolare invade i talk show. Se tanto ci dà tanto, il piccolo schermo non è più uno strumento della modernizzazione: riprendendo a prestito vocaboli del passato, si è perfezionata come strumento dell’omologazione. Ma non nel senso pasoliniano del termine: probabilmente non si è omologata affatto tutta la società, si è omologato il linguaggio televisivo, si è omologata la sua cultura, si sta omologando il suo ritmo. Dobbiamo provare a uscire da questo frullato di immagini e di suoni, di visioni del mondo colorate. Per cominciare, allora, ognuno, si inventi la sua moratoria. n

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