gli articoli L'Espresso/

Non ci resta che mormorare

09/08/2001

A Milano, sui computer dei dealer e dei trader furoreggia un salvaschermo che si apre con il suadente accento del Cavaliere: «Mi consénta di augurarle un buongiorno e una piaciuevole giornata di lavoro, la cosa più importante della vita» (e in chiusura, con la voce alteratissima: «Ma crìbio… è possibile che tu abbia già finito di lavorare? È una cosa… indegna!»). Sono espedienti di resistenza umana, perché Silvio Berlusconi non è ancora criticabile come uomo di governo. Solo gli stizzosi fondamentalisti se la prendono con la legge sul falso in bilancio e criticano la pietanzina del Dpef, un fritto così aereo. Per il resto, con la nascita del regime di Silvio II è semmai tempo di fronda e di "ius murmurandi". Che accomuna maggioranza e opposizione, perché nulla piace a tutti come parlare male del Capo. Struggendosi d’ammirazione, i suoi; compiacendosi per le cadute di stile, gli altri. E godendo languidamente lui, che vuole solo essere amato, e che quindi ama il rumour quando è frutto di un amore confessato o inconfessabile. Frondeggia freudianamente perfino il rigido Claudio Scajola, quando riferisce sul G8 e dice «abbiamo predisposto accurati controlli alle fioriere… ehm, alle frontiere», influenzato com’è dall’attivismo del premier, con i 106 interventi sostanziali ed estetici per «cambiare la faccia a Genova». Al punto che il sindaco di Genova Pericu, un dandy sul sarcastico, sbotta: «In 20 giorni, non ce la faceva neanche il mago Zurlì» (ma Lui sì, fior di «interventi sulla logistica e sull’accoglienza», sulle mutande stese e sul pesto alla genovese "garlic free", oltre che su edifici fatti misteriosamente abbattere). E quell’ingrato di Pericu: «Non ricordo se erano 106 o 110…». Frondeggiano comunque all’unisono destra e sinistra. Giuliano Ferrara scrive che dare la colpa di qualsiasi incidente al governo precedente è una strategia «capziosa», e la sconsiglia vivamente sul piano stilistico. Mattia Feltri, nelle lettere al "Foglio", riporta gli auguri di compleanno a Francesco Cossiga scritti nel gergo della fureria di Publitalia: «Caro presidente, nella lieta ricorrenza genetliaca le giungano i miei sentimenti augurali più fervidi». In effetti il Capo è debole dal punto di vista linguistico. Per questo, a parte gli errorini di natura lombarda per cui va celebre (le «chiacchere», il «teg-nico»), e i ripescaggi liceali di quando era un bravo grecista («vorrei dare contezza», «i prodromi»), è politically correct criticarne la propensione alla barzelletta: sia per ragioni istituzionali, perché non sta bene equiparare la Guardia di Finanza ai ladri (come in una delle storielle più successful) sia per filosofico fastidio verso barzellette e barzellettieri, come nel caso di Lucio Colletti: «Io detesto quelli che raccontano barzellette; in più le racconta in milanese, e non capisco un cavolo». Questo di Colletti è tradimento medio-alto, con sfumature esiziali perché il filosofo non nasconde una incompatibilità antropologica. Intelligenza con il nemico sono le facce degli altri intellettuali della Casa, Urbani, Fisichella, Tremonti, Sgarbi, allorché il Cavaliere se ne esce al Senato con le sue riflessioni di alta geopolitica tipo: «Era bello vedere la simpatia fra il presidente degli Stati Uniti e il premier giapponese, sessant’anni dopo Pearl Harbor, e dopo Hiroshima». Chissà, un dossier di Renato Ruggiero gli avrebbe chiarito che americani e giapponesi si sono parlati, nel frattempo; e gli avrebbe suggerito di non dire «queste otto teste coronate», che si presta ai giochi di parole. Tradimento medio-basso sono invece le critiche come quelle dell’oppositore Luciano Violante: «Lei ha parlato dell’Aids e delle carestie come di "inconvenienti"», perché mettono capziosamente in luce una inadeguatezza di lessico che potrebbe rivelare l’insensibilità di Silvio per quei rumpabàll di africani. Più accettabili, secondo l’etichetta di corte stilata da Gianni Letta, il Mazzarino di re Silvio, certe analisi politicamente borderline che mettono in rilievo l’originalità, disemm inscì, di certe espressioni. Ad esempio, quando il premier parla dei risultati del G8 e racconta del miliardo e 300 milioni di dollari stanziati contro l’Aids, aggiungendo: «che non è un importo da poco», è tollerato rilevare che il tono è da commercialista brianzolo. Rischioso invece censurare l’amoroso delirio pro-Bush e anti-Kyoto con la strofa «tu vuo’ fa’ l’amerikano». Vietato anche storcere il naso quando il premier parla della polizia dicendo «i nostri ragazzi», e vietatissimo segnalare che trattasi di espressioni da telefilm Usa o da Milan. Completamente out risultano ormai le malignità sull’aspetto fisico. Il pessimo Vauro che sul "manifesto" cita il «cantautore genovese» Fabrizio De Andrè («…che un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo») è un perverso epigono di "Spoon River" ma anche l’autore di una insopportabile scorrettezza verso un individuo di statura svantaggiata. Male anche il sinistro Roberto Benigni, con il suo song post-brechtiano «Quando sento Berlusconi mi si sgonfiano i c…». Meglio la Ferilli, frondista fronzuta e con quel paio di robe. Da evitare infine, perché fuori moda, le dicerie sulla tinta dei capelli, e i giudizi sul doppiopetto catafratto e il maglioncino blu. Cose d’altri tempi, quando Berlusconi era un avversario politico: mentre adesso, come dice ironicamente Giuliano Amato, è il presidente di tutti gli italiani e ci rappresenta tutti. Con l’augurio implicito che si controlli, e non ci rappresenti troppo.

Facebook Twitter Google Email Email