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Non facciamo i Gentiloni

06/12/2007

C’è voluto lo scoop del quotidiano "la Repubblica", con la pubblicazione delle intercettazioni relative al coordinamento politico dei telegiornali e dei palinsesti, per tornare a parlare dell’anomalia assoluta rappresentata dal duopolio televisivo in Italia. Eppure il problema affonda nella notte degli anni Novanta, all’epoca dell’ingresso in politica del monopolista Berlusconi. Si sapeva tutto, dov’è lo scandalo, sostengono i più realisti. Ma trovarsi stampate le conversazioni inciuciste, dominate dal volere implicito del leader del centrodestra, ha provocato un effetto particolare; non è di tutti i giorni la prova che i fedelissimi sono così fedeli al capo da tentare di oscurare la morte del papa. Tanto che si è ricominciato a parlare della legge di riordino del sistema televisivo, ancora afflitto dagli effetti della Gasparri. Su questo punto occorrerebbe un tantino di radicalità. Perché la legge predisposta dal ministro Gentiloni, che andrà in aula dopo le festività, è una buona e volonterosa mediazione, ma non è affatto sufficiente a risolvere il problema. I difetti del disegno Gentiloni sono stati rilevati con chiarezza: nella proposta del ministro non c’è una fiducia sufficiente nel mercato, come si vede dall’idea del tetto alla raccolta pubblicitaria (fissato al 45 per cento, mentre oggi Mediaset oscilla sul 57 per cento); come pure il trasferimento nel digitale di una rete Rai e una rete Mediaset: non era più logico mettere sul mercato queste due reti? Non sarebbe stato l’embrione di un oligopolio se non altro più largo? In realtà, ogni discorso sul futuro della televisione in Italia è condizionato da due aspetti: in primo luogo, la presenza di Silvio Berlusconi come signore e padrone di Mediaset, che strilla all’esproprio, e fa strillare i suoi pretoriani, a ogni idea ispirata da una nitida concezione antimonopolista; e subito dopo c’è il totem premoderno del cosiddetto servizio pubblico svolto dalla Rai. Ora, che il servizio pubblico sia una favola è testimoniato dall’insufficiente, come minimo, attenzione dedicata dalle reti della Rai agli eventi collettivi, alle sessioni parlamentari, a tutto ciò che attiene generalmente alla "polis". Ormai il servizio pubblico, quello per cui si paga quella gabella arcaica che è il canone, è limitato alla trasmissione degli incontri della nazionale di calcio. Ma detto più esplicitamente, il servizio pubblico è in realtà un servizio politico, cioè la possibilità per i partiti e gli schieramenti di occupare spazio nell’informazione e negli organigrammi. Un residuo del passato anche questo, che soltanto con un certo ottimismo verrebbe risolto con il passaggio a una fondazione autonoma. Di recente il ministro Gentiloni ha sostenuto che la Rai deve «recuperare una maggiore autonomia dalla politica». Espressione infelice. Che cosa vuol dire «maggiore autonomia»? L’autonomia o c’è oppure non c’è, non si danno gradazioni intermedie. Proprio per questo, e in considerazione dello sviluppo del mercato e della tecnologia, sarebbe il caso che a qualcuno venissero in mente soluzioni un po’ più radicali. Abolire il canone, per esempio, e non solo per gli anziani poveri e ultrasettantacinquenni, come previsto dalla finanziaria. Abolirlo e basta, perché sarebbe molto morale che la Rai vivesse soltanto con gli introiti della pubblicità. In secondo luogo, possibile che agli adepti del liberalismo e del liberismo non sia quasi mai venuto in mente che una magnifica piattaforma "di mercato" e pluralista consisterebbe nel privatizzare la Rai, e nello stesso tempo frazionare sul mercato Mediaset? Avremmo sei ottime reti, più La 7, a contendersi il mercato dell’audience e della pubblicità, ottima forma di pluralismo e quindi di maggiore libertà. Una delle obiezioni è che in Italia non esistono soggetti in grado di acquistare le reti messe in vendita. Può darsi. Ma potrebbero comprarle gli indiani, i tedeschi, gli americani, gli spagnoli. A chi appartiene Sky, forse a un’impresa italiana? E il telegiornale di Sky non fa più servizio pubblico, durante una giornata, di quanto non faccia la Rai in una settimana? Dopo di che, verranno i compromessi, i patteggiamenti, le minacce a Berlusconi anche da destra («Aspettiamo in aula la Gentiloni», come hanno già detto quelli di An). Ma l’argomento di fondo non dovrebbe essere eluso: vogliamo il mercato, la tecnologia e la modernità, oppure i balzelli come il canone, il condizionamento politico, il coordinamento realizzato grazie ai tirapiedi dei leader, le interviste contrattate, la lottizzazione degli ospiti, i veti? Non c’è bisogno di rispondere, la domanda è ovviamente retorica. Ma sarebbe il caso, d’ora in avanti, di non raccontarci storielle pensose e illuminate sul servizio pubblico e la sua antica filosofia, quella favola bella che ieri ci illuse ma oggi non dovrebbe illuderci più.

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