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Ora siamo in prima linea

15/11/2001

L’Italia è in guerra, e probabilmente sarà impegnata in operazioni militari dirette. A questo punto le istituzioni, i partiti, l’opinione pubblica, l’intera società italiana non hanno di fronte solo il compito di dichiarare la propria generica solidarietà agli Stati Uniti: l’ora della retorica è scaduta, e questo impone atteggiamenti intonati alla gravità della situazione. La lealtà verso l’America, l’America ferita dell’11 settembre, è fuori discussione: ma l’ingresso a pieno titolo nella condizione bellica cambia drammaticamente lo status del nostro paese, i suoi impegni, i costi razionalmente preventivabili. Sotto questo profilo non è un esercizio di speciosità valutare come si è evoluto il ruolo italiano sotto la guida di Silvio Berlusconi. Perché negli ultimi due mesi il capo del governo non si è limitato a mettere in tavola le prove del suo atlantismo: ha anche cercato in tutti i modi, talora esponendosi in modo provinciale, di interpretare un ruolo da protagonista sulla scena internazionale. Ha incontrato Bush, Putin, Blair. Ha reagito con ostinazione all’esclusione dal direttorio europeo dopo lo schiaffo di Gand. Ha convinto l’amministrazione americana ad accettare il coinvolgimento italiano in Afghanistan, piazzando il nostro paese in una posizione nettissima nella guerra al terrorismo, sfidando così le conseguenze che ciò potrà implicare. Berlusconi ha giocato una scommessa altissima, trascinandosi dietro tutta la sua coalizione politica e la parte maggioritaria dell’opposizione. Quanto agli esiti immediati, la sua rimonta è riuscita. Si tratterà di vedere in seguito se saprà gestire, oltre all’investimento effettuato, anche i prezzi che per ora restano invisibili. Il cambiamento di stile è abissale, rispetto a quello della classe politica andreottiana e craxiana implicata dieci anni fa nella guerra del Golfo, ma anche nei confronti del personale del governo dalemiano all’epoca dell’intervento nel Kosovo. Si dà il caso però che né Saddam Hussein né Milosevic avessero la minima possibilità di effettuare ritorsioni militari o terroristiche contro i paesi dell’alleanza occidentale; mentre oggi l’Italia va in prima linea, sul fronte afgano e rispetto alle possibili vendette degli accoliti di Bin Laden. In sostanza, Berlusconi ha messo l’Italia sul fronte. È una decisione lineare, anche se perseguita con un sovrappiù di affanno. Ma è una posizione che ci impegna nella crisi forse più grave dalla fine della seconda guerra mondiale. Sarà bene averlo chiaro in mente. Perché la guerra cambia in profondità sia le condizioni del confronto politico sia la qualità dei comportamenti. Deve influire sull’azione di governo, perché la bipartisanship non può essere richiesta esclusivamente all’Ulivo. E, non ultimo, deve incidere sulla forma dei comportamenti pubblici. Perché a due mesi dall’attentato alle Torri gemelle, e a pochi giorni da un voto parlamentare che spedisce in guerra il paese, la marcia filoamericana a Piazza del Popolo non è più un appuntamento psicologico, un’occasione polemica, una mobilitazione politica. È qualcosa di inadeguato alla durezza dei tempi, all’aspra moralità della guerra, tutto qui.

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