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Orgoglio nero

11/12/2003

Fascista, certo. Fascista nel senso del movimento, sia chiaro, non nel senso del partito. Consapevole che un regime politico non è ripetibile, perché il fascismo nasce sulla scia della massa di reduci dalla Grande guerra, dallo scontro sociale, dal biennio rosso, dal timore del bolscevismo… Pino Rauti maneggia le parole con spregiudicatezza. «Fascista io? Sicuro. Lo dissi al giudice del processo di Catanzaro: lei è cattolico, vero? E va a messa tutte le domeniche, no? E ci va anche se l’Inquisizione ha torturato e bruciato. Allora io sono fascista. Se c’è chi si dice comunista nonostante gli "errori" che hanno provocato cento milioni di morti, io sono fascista». Quelli dell’estrema destra lo chiamavano "il Gramsci nero". È stato allievo di Julius Evola, ha fondato Ordine nuovo, all’epoca delle trame nere il "male assoluto" era lui. Dopo l’assemblea di Fiuggi, è diventato lo scissionista e il custode dottrinario dell’identità missina. Oggi Rauti, altro che fiamma, è un vulcano di insofferenza anti-finiana. Figurarsi, per uno come lui, che ha scritto e pubblicato i sei volumi, le 3.600 pagine della "Storia del fascismo", la svolta del presidente di Alleanza nazionale è l’ultimo, intollerabile episodio di un’abdicazione politica ai danni della memoria. E si capisce, il suo vecchio avversario, con cui si scontrò per la segreteria del Msi, è diventato antifascista. «Vuole un giudizio sul viaggio di Gianfranco Fini in Israele? È stato del tutto negativo. Per l’Italia, per l’Europa e, se posso dirlo, anche per Alleanza nazionale». Svolta negativa per l’Italia, Rauti: ci dica perché. «È stata improvvida per il nostro paese perché ci ha presentati come i più filoisraeliani dell’Unione europea. Al coperto della condanna del razzismo e dell’antisemitismo, Fini ha compiuto un’operazione politica che ha avuto e avrà serie conseguenze nel rapporto con il mondo islamico. Oltretutto, c’è stata una confusione di ruoli, che non è stata rilevata né dalla stampa né dall’opposizione: chi era il Fini che si è visto a Gerusalemme, il vicepresidente del Consiglio? Oppure il leader di An? Non si è capito affatto. È andato a farsi sdoganare, e la conseguenza è che siamo apparsi succubi di Sharon e del suo governo, un governo contestatissimo per la politica che conduce». E per l’Europa? «Si è trattato di una iniziativa dannosa anche per l’Europa, e per la sua collocazione nell’equilibrio geopolitico mondiale. Esiste ancora, o esisteva, un’ipotesi di Europa "carolingia", fondata sul binomio Francia-Germania: se a questo asse si fosse aggiunta l’Italia, si sarebbe costituita un’entità capace di distinguersi dagli Stati Uniti e dalla politica di George W. Bush. Bene, anzi male, questa ipotesi è stata affondata. Per un presunto interesse di partito, e per sicuro un interesse personale, Fini ha ceduto tutto». Ma per Alleanza nazionale lo strappo di Fini può portare vantaggi politici o almeno elettorali. «No, la svolta è negativa anche per An, perché svende una storia. Noi della Fiamma tricolore siamo stati sommersi dalle telefonate, dai fax, dalle proteste. Questa potrebbe sembrare una dichiarazione politica, non verificabile, d’accordo. Ma allora tenga conto che l’Unione combattenti della Repubblica sociale ha chiesto ai suoi iscritti di uscire da An. Ajmone Finestra, il vicepresidente dell’Unione, ha emesso un comunicato durissimo in questo senso». Rauti, non lo nasconda: si aprono prospettive di qualche interesse per il suo partito. «Adesso noi faremo una lista alle elezioni europee, che possa essere una casa per l’eventuale diaspora da An e per tutti coloro che rifiutano la svendita. Siamo avvantaggiati perché non abbiamo bisogno di raccogliere le firme, dato che avevamo già un deputato europeo, mentre Forza nuova e il Fronte sociale nazionale di Adriano Tilgher, e il partito annunciato da Alessandra Mussolini si trovano davanti le 35 mila firme da raccogliere sul piano nazionale, una montagna». Fini sostiene che ciò che ha detto a Gerusalemme è una semplice conseguenza dell’assemblea di Fiuggi del 1995. «Storie. Fini ha aggravato Fiuggi. Perché un conto è uscire dalla casa del padre, un altro conto è dire che era un luogo di vergogna. C’è una sconcertante mancanza di cultura storica. Vuole che non sappia che nella Repubblica di Salò si scatenarono anche gli istinti peggiori? Era una guerra civile, queste pulsioni sono venute fuori da una parte e dall’altra. Ma Fini e i suoi seguaci devono spiegare allora che cosa rimane di quella esperienza. Che cosa ne facciamo di Junio Valerio Borghese, che con la X Mas, tra la fine del 1944 e i primi mesi del 1945, riuscì a salvare il Friuli sbarrando il passo a quelli di Tito? Ci dica, Fini, come dobbiamo trattare il maresciallo Graziani, che alla fine di aprile 1945 firmò la resa della Rsi a Caserta, un atto ufficiale, che fece in modo che tutti i militari della Repubblica caduti nelle mani degli alleati godessero del trattamento di prigionieri di guerra? E ci dicano anche che cosa rimane di una figura come Filippo Tommaso Marinetti, ferito in Russia, ormai moribondo nel 1944, sul lago di Como, che in un atto estremo aderisce alla Repubblica sociale. E che cosa resta di Giovanni Gentile, il filosofo ammazzato dai partigiani. La memoria storica non può essere insultata. Dico a Fini: fatti il tuo partito, allora, e non trascinare nella vergogna chi ha ancora l’orgoglio di ciò che ha fatto». Orgoglio anche per le leggi razziali? «D’accordo, le leggi razziali. Parliamone. Non le difendo affatto, ma cerco di capire il contesto in cui vennero emanate. Ricordiamoci che nel 1936 era scoppiata la guerra di Spagna, che ha strappato il paese al bolscevismo. Ai primi del ’38, le grandi associazioni ebraiche internazionali avevano dichiarato guerra al fascismo. Le leggi razziali sono state un episodio minore di reazione a questa apertura di ostilità. Un episodio sbagliato, sbagliatissimo, che cosa devo dire di più? Ma non è che una parte può fare la guerra e l’altra deve stare a guardare. Insomma, c’era una guerra in corso, un fronte internazionale contro il fascismo, se è vero che la Francia spedì in appoggio al Negus e alla resistenza abissina Raoul Salan, il futuro capo dell’Oas, che veniva dall’Indocina ed era uno specialista di guerre tribali. Capirà, noi mandavamo in Africa orientale dei ragazzi di vent’anni, senza nessuna esperienza, mentre Salan era stato il governatore del Mekong: ci toccò riconquistarla, l’Etiopia, e costò l’ira di Dio». È la tesi della guerra civile europea. «Sto giusto per pubblicare un libro che si intitola "La guerra più lunga", sottotitolo "Undici anni che sconvolsero il mondo". Dal 1935 al 1945 si è combattuta davvero una guerra civile in Europa, che ha avuto sempre gli stessi protagonisti sui due versanti». Solo che il fascismo questa guerra l’ha combattuta dalla parte di Hitler, del razzismo, del programma antisemita. «Ma, vede, anche qui occorre distinguere. Il razzismo fascista non era copiato dalla Germania. Le prime espressioni si trovano già nel Mussolini del 1919. Ce n’è traccia nel Codice Rocco. La "difesa della stirpe" trova i suoi primi provvedimenti in Africa orientale, a causa del proliferare dei rapporti con le donne africane: furono richiesti dal Vaticano, sollecitati dai parroci. Eh sì, c’era un milione di giovani lontani da casa, che trovavano la faccetta nera per due lire, mentre le mogli restavano a casa in Italia, erano gelose, e si lamentavano con il prete. Si rischiava di avere centinaia di migliaia di meticci…». Secondo lei era un razzismo all’italiana, familista. Ma se si fosse trattato solo di un problema di filologia, o di interpretazione storiografica, lei avrebbe potuto restare in An a fare l’opposizione interna. «Neanche per sogno. Fiuggi aveva posto le premesse di una svolta per me insostenibile, anche se allora perlomeno non si sputò addosso alla propria storia. Comunque la rottura era inevitabile, da parte mia. La sera prima, Ignazio La Russa e la vedova Almirante mi dissero: "Non te ne andare", lasciando capire che in seguito una soluzione si sarebbe trovata. Ma io ho risposto che per me non c’era soluzione. Signori, ho detto, voi avete fatto dei discorsi, io ho scritto dei libri. C’è una differenza. Il resto è cronaca, con Fisichella, l’ispiratore del progetto di Alleanza nazionale, che dice: "Il collo della bottiglia è stretto, Rauti non ci passa". Tutti piangevano, ma poi sono rimasti là, anche il più affranto di tutti, Teodoro Buontempo. No, non potevo restare dentro An a fare l’opposizione interna. Tanto più che Tatarella disse che la scissione faceva comodo. La posta in gioco era altissima, se è vero che Rocco Buttiglione alluse a un rilievo strategico non solo italiano. A chi gli chiese se il passaggio dal Msi ad An era stato favorito, diciamo così, da risorse esterne, rispose non troppo sibillinamente: "Chiedete a Kohl". Lasciando intendere che i cristiano-democratici tedeschi non erano stati inerti». La metamorfosi di An rispondeva anche alla logica delle alleanze imposte dal sistema maggioritario. E oggi la corsa al centro di Fini risponde alla necessità di prepararsi all’eventualità del post-Berlusconi. «Ma per correre al centro bisogna essere qualificati. Per quanto Fini si dia da fare, non avrà mai la guida del centro-destra. Al momento buono, nel dopo Berlusconi, daranno l’incarico a Casini, non al capo di An, per quanto il suo partito sia stato revisionato. E si capisce: ci sono più democristiani in Parlamento adesso che non ai tempi di Andreotti. Tutto questo travaglio, il maggioritario, la transizione, la Seconda Repubblica, non serve ad altro che a far tornare la Dc sotto altra forma». Eppure la Fiamma di Rauti qualche accordo con il centro-destra lo ha fatto. «Al nostro ultimo congresso si è deciso che, pur mantenendo la nostra specificità, che ci distingue nettamente dal liberismo di Berlusconi e di molti suoi alleati, siamo costretti a fare accordi con il centro-destra». Nel 1996 il mancato accordo costò caro al Polo delle libertà. «Una trentina di seggi perduti. Berlusconi disse: è colpa di Fini, che ha sottovalutato la presa della Fiamma. Mentre adesso due regioni hanno una maggioranza di destra grazie al nostro contributo». Un fascista movimentista come lei che si accorda con il liberista Berlusconi. Qual è il suo giudizio sul governo di centro-destra? «Questi non sanno governare, né comunicare le poche cose positive che fanno». Dal suo punto di vista quali sarebbero le cose positive, la liberalizzazione del mercato del lavoro? «Ma no, qualcosa sulla famiglia, poco ma qualcosa. Invece le misure sul mercato del lavoro sono antisociali e antieuropee. C’è una cultura europea che è stata modellata dai sindacati, dal pensiero sociale cattolico e dal corporativismo fascista: non siamo in America, vogliamo rendercene conto? Da noi non si possono licenziare via Internet le persone. Il liberismo ci porta al declino industriale. Ero a Barletta, c’erano diecimila disoccupati potenziali, perché la maglietta che loro producono costa 3 euro, contro un solo euro in Cina. Si fa finta di non vedere che gli imprenditori italiani vanno a produrre dai comunisti cinesi perché il lavoro costa venti volte meno che da noi, e intascano la differenza. La Fiat produce 225 mila fra auto e camion in Polonia, con salari operai che sono un sesto del salario italiano, e questo va a beneficio dell’Ifi». Solito Rauti, anticomunista, anticapitalista, antiborghese. Ma se in Italia si fosse sviluppato un partito non liberista, popolar-conservatore come la Cdu-Csu in Germania, lei sarebbe stato ai margini della politica, irriducibile come sempre? «Forse avrei potuto essere un compagno di strada di quell’aggregazione politica. Ma non si può dire, è un discorso astratto. Perché noi abbiamo un retroterra fortissimo di vissuto: nella Rsi io ho fatto la guerra sino alla fine, facevamo i rastrellamenti nel basso Polesine, e vedevamo l’odio nei nostri confronti. C’era l’odio, ma c’era anche una miseria spaventosa. Non ci capivano. E allora io pensavo, e lo dicevo, la colpa è nostra. Mai più non farci capire, mai più. L’intera mia vita politica è stata basata su questa convinzione, su questa intenzione. E tutto questo, mi creda, non si svende».

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