Ai tempi dei tempi, il centrodestra italiano era una fotocopia su scala minore del reaganismo. Nella campagna elettorale del 2001, Silvio Berlusconi appariva sui cartelloni sei per tre con lo slogan "Meno tasse per tutti": era una variante italica dell’economia "supply side", secondo cui abbassando le aliquote il gettito sarebbe aumentato (una trovata neoliberista che non è mai stata dimostrata empiricamente ma che ha goduto di molto successo a partire dagli anni Ottanta). Inoltre la coalizione elettorale di Berlusconi si presentava con una ideologia tutta legata a principi liberisti, a cominciare dalla liberalizzazione del mercato del lavoro: qualcuno ricorderà la battaglia sull’articolo 18, la libertà di licenziare presentata come "libertà di assumere". Era tutto un imbroglio. Il governo Berlusconi di quel quinquennio non ha mai rispettato i criteri neoliberisti a cui diceva di ispirarsi. La caduta e la sostituzione del ministro dell’economia Giulio Tremonti rappresentò il fallimento integrale della legislatura di centrodestra. Il Contratto con gli italiani stipulato a "Porta a Porta", con dotazione di stilografica e scrivania di ciliegio, non venne rispettato. Berlusconi si preparava ad andare incontro a una nuova sconfitta elettorale contro l’Unione di Romano Prodi. Il Cavaliere, va pure detto, non è granché fortunato. Riconquistato Palazzo Chigi nel 2008, si è trovato davanti a una crisi economica acuta. Non sapeva come affrontarla, e per mesi ha pigiato il tasto delle aspettative. Nei suoi slogan, la recessione era il frutto di atteggiamenti psicologici che deprimevano i consumi; occorreva ottimismo, propensione alla spesa, un’euforia artificiale. A un certo punto, tutti gli esponenti del governo hanno cominciato a sostenere la tesi, infondata, secondo cui "il peggio era alle spalle". E si è proseguito così, con proclami e annunci, mentre anche il clima culturale cambiava radicalmente. Anziché il neoliberismo dei primordi, cominciava a diventare moneta corrente lo statalismo colbertista di Tremonti. Il cambio di rotta non doveva dispiacere a certi ambienti della maggioranza, soprattutto agli ex An confluiti nel Popolo della libertà. Ma si trattava di una specie di metamorfosi: con un cambiamento a rovescio, dal male al peggio: la farfalla liberista diventava il bruco dirigista. E il risultato finale, dopo scontri, manfrine, bufere di neve inventate a San Pietroburgo per far saltare un consiglio dei ministri, incontri privati ad Arcore, era la decisione di non fare niente. Nulla. Dopo il solito annuncio dell’abolizione dell’Irap si è deciso di rinviare tutto a tempi migliori. Di fatto, siamo passati alla non-politica economica. Evocazione di carrozzoni come la Banca del Sud. E la famosa "exit strategy" per uscire dalla crisi? I ministri e i viceministri che compaiono come ospiti nei talk show televisivi continuano a ricordare le risorse impegnate negli ammortizzatori sociali: ma c’è voluto un operaio ad "Annozero" (non un economista di grido, un semplice operaio!), a ricordare polemicamente che dalla crisi economica non si esce con la cassa integrazione, ma con misure di sistema. I giornali hanno dato ampio spazio al Forum della piccola impresa a Mantova, in cui è stato dato l’allarme su un milione di piccole imprese a rischio di chiusura. Ma non sembra che sia stato segnalato che cosa implica tutto questo: cioè milioni, diconsi milioni, di disoccupati potenziali. Nel frattempo il governo è impegnato a progettare riforme costituzionali, sulla giustizia e sulla forma di governo. Forse non c’è una buona conoscenza della situazione economica reale. D’altronde, quando l’ingegner Roberto Castelli, ex ministro della Giustizia, ad "Annozero" sostiene a gran voce che dall’inizio della crisi gli Stati Uniti sono calati nel Pil del 13 per cento e il Regno Unito del 12, mentre «noi stiamo resistendo», che si può dire? "La voce.info" ha smentito rapidamente il viceministro leghista (gli Usa calano del 3,6 per cento, il Regno Unito del 5,5, e noi non stiamo resistendo affatto). Ma nel frattempo noi, cioè l’opinione pubblica, siamo bombardati dalla propaganda del Pdl. Tanto che si perde di vista qualcosa di clamoroso: in pochi anni, la destra è passata da una politica economica neoliberista a una statalista, per finire a nessuna politica economica. Tremonti cadrà o non cadrà, Umberto Bossi lo salverà o no. Ma nel frattempo si può già constatare, di nuovo, il fallimento del partito berlusconiano sull’economia. Conti pubblici allo sfascio, la spesa inarrestabile, il deficit al 5 per cento, il debito come nei primi anni Novanta. Intere stagioni di sacrifici buttati via. Con qualche conseguenza: alla fine pagheremo caro, pagheremo tutto.
05/11/2009
PORTE GIREVOLI