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Parte il missile Fiorello

30/03/2006

Con quei baffetti che gli danno un’aria saracena, a prima vista è leggero, leggerissimo, impalpabile. E invece Rosario Fiorello, in arte Fiorello, per gli amici siciliani Saro, secondo nome Tindaro, è 87 chili di energia pura. Una radiazione nucleare. Quasi tre chili persi a ogni spettacolo, perché nelle tre ore del suo show "Volevo fare il ballerino", che sta spopolando in giro per l’Italia, il dispendio fisico è spaventoso: «Non ho tecnica, non ho studiato, non uso il diaframma, canto di gola, con una fatica bestiale». Mettiamoci la puntata quotidiana del programma cult "Viva Radio 2", le convention aziendali che servono anche per sperimentare nuovi personaggi e nuovi numeri, e si capisce subito che l’ex divo del karaoke, classe 1960, deve avere un fisico da atleta. Allora avanti con il monologo, storia vera di Fiorello raccontata da lui medesimo. «Un fisico da fuoriclasse? Sarà perché da giovanissimo avevo una carriera nel calcio», scherza. Fino a 15 anni ha giocato ala destra nella Megarese, la squadra di Megara Hyblaea, un amore per il pallone destinato a perpetuarsi con il tifo per «la grande Inter» (pronunciando il sacro nome nerazzurro alza religiosamente il dito), «vista per la prima volta allo stadio di Catania». Città fatale in ogni senso, dato che a Catania c’è pure nato. «Ma solo per ragioni ospedaliere: la mamma Rosaria, brava ragazza di Giardini Naxos, ha avuto qualche difficoltà a farmi nascere, e io qualche seria difficoltà a saltar fuori. Un cesareo da 64 punti, tanto che mia madre, dopo quello strazio, sospirò: sia chiaro, dopo Rosario, nessuno». E gli fece mettere nel secondo nome il richiamo alla Madonna dei Tindari, la Madonna nera a cui era devota. Si sa che fine fanno le promesse. Mamma Rosaria ebbe altri tre figli: Anna, nel 1961, Catena detta Cati (l’eccentrico nome viene da una nonna), nel 1966 e Giuseppe detto sciaguratamente a suo tempo Fiorellino, e ora Beppe, nel 1969. Forse non riusciva a resistere al fascino di papà Nicola, appuntato radiotelegrafista nella Guardia di finanza, «che era nato a Letojanni, assomigliava a Clark Gable, e morì all’improvviso nel 1990 a una festa». Allora se ne stavano ad Augusta, aspettando che Rosario raggiungesse lentamente la quarta al liceo scientifico Principe di Napoli. «Nello show lo dico chiaro, l’unico mio titolo di studio è il battesimo. Studiare, ma si poteva? Augusta è un’isola, eravamo circondati dal sole e dal mare, fin da bambini si stava sempre fuori, a giocare a "chiappeddi", le pietre al posto delle bocce, in palio le figurine Panini». Ma poi, come esercizio culturale, è riuscito a incidere una canzone pop sui versi di "San Martino" di Carducci, «La nebbia a gl’irti colli piovigginando sale». E a farsi invitare dal rettore dell’Università Cattolica, Lorenzo Ornaghi, per un faccia a faccia con 1.500 studenti. Comunque agli inizi, altro che ballerino. «Volevo davvero fare il calciatore. Ma gli anni del liceo erano gli anni delle prime radio libere: Radio Marte, Radiorama, Augusta Centrale. Era il tempo della "Febbre del sabato sera"». Tutti travolti da John Travolta? «Roba da poco, gare di disc jockey ai balli studenteschi. Ma uscivamo da un grandissimo provincialismo, quando andare al cinema a Catania era un’impresa eroica». L’esordio avviene come dj al Gran ballo della ragioneria, ma il primo spettacolino vero è al bar, imitando "Tutto il calcio minuto per minuto" con le voci di Ciotti, Ameri e Bortoluzzi. Poi, corrente l’anno 1976, si fa vivo il destino. A Brucoli, sei chilometri da Augusta, tirano su un villaggio Valtur. Molti ci vanno a lavorare. E ne escono la sera con gli occhi schizzati: «Voi non potete immaginare! Sono tutti milanesi! E si vestono con certe stoffe… Nessuno aveva mai visto un pareo. Anzi, prima di andare militare, nella Caserma Milano a Bari, Car e Car avanzato, non ero mai uscito dalla Sicilia, Milano era un altro pianeta, e i milanesi marziani». A quei tempi i ragazzi li mandavano a lavorare, d’estate: «Andavo a vendere la lattuga con l’Apecar, facevo il banditore: donne, lattuga fresca! Cinquecento lire al giorno». Solo che il Valtur era un paradiso off limits. Impossibile entrare, anche il ristorante era un miraggio. «Allora una sera tagliamo la rete metallica, entriamo vestiti da turisti, e ci appare davanti la meraviglia: i suoni, la festa, belle donne, ricchezza, gozzoviglio puro. Ci beccano subito. Voi che camera avete? "La Seicentoventicinque!". La faccia di bronzo non basta. Sguardo clinico dell’uomo della sicurezza e poi la sentenza: "Fuori"». Da quel momento, l’imperativo divenne: lavorare al Valtur. «Anche perché era un buon lavoro, si facevano i turni, 6 ore e 40, e soprattutto dopo il lavoro si poteva restare nel villaggio. Seguo la trafila: ufficio di collocamento, lista d’attesa, assunzione come facchino di cucina. Sa che cos’è il facchino di cucina? Un paria, uno che è un gradino sotto il lavapiatti. Ma io cercavo di lavorare bene, come ho sempre fatto, qualunque fosse il lavoro». In modo da fare una modesta ma sicura carriera: aiuto cuoco, detto anche "commis di cucina", poi cameriere, posto molto ambito nella gerarchia del villaggio, con la fascia rossa in vita che fa il suo effetto. «Facevo gli show ai tavoli, le imitazioni, e piacevo. Qualcuno chiedeva al caposala: "Mi mette dove c’è quello moro? ". Ma soprattutto dal ristorante vedevo il bar, cioè la vita, la mondanità: e alla fine al bar sono riuscito ad arrivare». E il bar è la svolta. «Come no: alzo gli occhi e vedo l’anfiteatro dello spettacolo serale. Faccio i miei show al banco, con i clienti che si incuriosiscono. Un giorno vedo l’asta del microfono che mi tenta, mi avvicino, la afferro e faccio: sssà, sssà; e parto con "Moonlight Serenade", inventando tutte le parole». La gente lo nota, e Fiorello ottiene l’occasione per qualche piccolo show. Solo che proprio allora, dopo alcuni rinvii per ragioni scolastiche, arriva la cartolina precetto. Casermette di Bari, «la prima vera difficoltà della mia vita». E allora? «Mi dico: qui, o mi diverto o crepo». Erano anni difficili, con le Br che avevano fatto razzie nelle armerie militari, si faceva la guardia con il colpo in canna nel Garand. «Eppure ci provo, a divertirmi. Imitavo il colonnello comandante, il tenente, l’ufficiale di picchetto. Mi mettono nel plotoncino d’onore, con i galloni da caporale, mi faccio un coso così con le marce e le esercitazioni. E quando credo di essermi guadagnato una posizione, l’Esercito italiano mi manda a Sacile». Vicino a Pordenone, profondo Friuli. «Per un siculo come me era la Siberia, una Finlandia, muschi, licheni, il grande Nord. Ma era gente meravigliosa, che voleva un gran bene ai militari, dopo il terremoto di Gemona. Il giorno del congedo m’è venuto da piangere. Nel frattempo anche lì ho cominciato a fare spettacolo: cameriere nella mensa sottufficiali, metto su una band, faccio il presentatore a tutte le feste: Natale, Capodanno, Pasqua, niente licenze perché per tornare a casa ci vogliono 21 ore di treno, chi li aveva allora i soldi per l’aereo?». Quando ritorna al Valtur, il capovillaggio, Enzo Olivieri, non vuole più assumerlo come cameriere. «Mi dice: vieni a fare l’animatore, e io arriccio il naso, perché si guadagna poco, e precariamente. Poi però comincio: senza le basi musicali, improvvisando tutto. Al mattino andavo in spiaggia per farmi conoscere con qualche trovata. Travestito da papa, facevo la benedizione dei cornetti. Così la faccia e il nome cominciavano a circolare, e la sera la gente veniva all’anfiteatro per vedermi». È il decollo? «Macché. Olivieri se ne fila in Costa d’Avorio, e mi chiama con sé. È il primo bivio della mia vita. Mio padre contrarissimo, la fidanzatina pure. Ma io mi dico, se rimango qui, ci muoio: e allora mollo la morosa e nel 1983 vado laggiù in Africa, in un villaggio da parenti poveri del Club Méd. Capo animatore. Discreto successo, con i turisti che dall’Italia chiedevano di prenotare dove lavoravo io. D’inverno l’organizzazione mi mandava in montagna, a Marilleva, a Pila, a San Sicario. Una sofferenza, perché la gente devi andare a cercartela sulle piste. E io ci andavo: a far vedere a quelli delle settimane bianche un siciliano travestito da orso». Nel 1989, quando finisce la stagione a Marilleva, arriva una svolta ulteriore. «Conosco Bernardo Cherubini, che sarebbe il fratello di Jovanotti, e che faceva l’istruttore di tiro con l’arco nei villaggi: "Andiamo a Milano?", propone. Si va. Lorenzo faceva "Uno due tre Jovanotti", stava esplodendo; io, un nessuno: mi hanno preso a fare le voci. Parlavo in radio parodiando un ascoltatore di Bergamo, molto gutturale. Comunque Claudio Cecchetto, uno con la vista lunga, mi osserva con l’occhio clinico e mi fa: "Ti faccio provare Radio DeeJay". E qui siamo al secondo bivio». Erano tempi difficili. Fiorello racconta di essere stato tentato più volte di tornare indietro. Con la radio di Cecchetto passava tutta musica straniera, «e io invece facevo "Amico è" di Dario Baldan Bembo, cose molto popolari. Ho una specie di buco nella cultura televisiva, una voragine d’ignoranza vera, perché per un periodo sono stato sempre in giro per il mondo. L’Africa, la Spagna, Ibiza. Eppure forse per questo ho un mio stile, perché non mi sono fatto influenzare troppo». Per fortuna ci fu la valvola di sfogo di DeeJay Television, anche questa di Cecchetto, una specie di Mtv ante litteram: «Vera fucina di talenti. C’erano Linus, Amadeus, Albertino, Jovanotti, Pieraccioni, e ho cominciato a fare un programma con Amadeus, "Mattinata esagerata", e i primi personaggi, cioè le parodie di Michele Cucuzza e Bruno Vespa. Mi inventai la macchietta del meccanico della Vespa di Bruno Vespa. Ma mi sentivo ancora un pesce fuor d’acqua, i vecchi clienti mi guardavano perplessi: "Al villaggio eri un’altra cosa", insomma non ero contento. Oltretutto, nel 1990 Radio DeeJay mi manda al Festival di Sanremo, e mentre sono lì sulla Riviera squilla il telefono: torna a casa perché papà è morto. È per questo che Sanremo ancora oggi mi prende la gola». Qualche volta è il caso a decidere. «Già, all’improvviso la mia vita prese tutta un’altra piega. Incontrai Marco Baldini, che oggi è il mio alter ego. Nacque "Viva Radio DeeJay", che è l’antenato di "Viva Radio 2". E Gerry Scotti, che mi aveva sentito fare il cantautore ermetico Gregorio De Francesco, mi chiamò al "Gioco del 9", con Teo Teocoli e Gene Gnocchi. Va tutto benino. Così vengo preso per il Cantagiro, con Mara Venier e Gino Rivieccio. Di me scrivono: "Sta nascendo una stella. Bisogna ucciderla prima che uccida noi". Sembrava che gli avessi fatto qualcosa. Finché Fatma Ruffini annuncia: "Abbiamo un format olandese, per fare una cosa giapponese, il karaoke. Sfruttiamo le bellezze dell’Italia, le piazze, facciamo un programma che non costa niente e vediamo se da cosa nasce cosa"». La cosa comincia ad Alba, le puntate d’esordio tutte con inquadrature strette per non far vedere il deserto intorno al palco. Risultati deludenti, 3 per cento, massimo 5 per cento. Essere o non essere, chiudere o non chiudere? «Andavamo alle 20, contro i tiggì. Okay, si chiude, finiamo le puntate già programmate. Solo che a un tratto l’audience comincia a crescere. Prima insensibilmente. Ottocentomila, un milione; poi più forte, un milione e mezzo, due milioni, due milioni e sei. A Pescara, 20 mila persone, senza la sicurezza, senza organizzazione: distruggono la piazza. A Milano, 100 mila persone in piazza del Duomo. Centomila anche a Torino. Uno stress tremendo, perché ero ostaggio del successo, non potevo nemmeno andare al ristorante senza essere assalito da frotte di aspiranti cantanti; in un cinema mi dovettero portare via altrimenti nemmeno cominciava il film». Era il 1992, la prima delle due stagioni del karaoke. «Ma ero insoddisfatto, perché mi limitavo a far cantare i partecipanti. Era il segreto vero del karaoke, perché la gente in quel momento, con il trauma quotidiano di Tangentopoli, preferiva guardare se stessa anziché la politica: e pensava, davanti alla tv, quello che sa fare lui lo so fare anch’io. Si identificava. Eppure io non mi limitavo al karaoke. Prima della trasmissione intrattenevo il pubblico almeno per un’ora. Mi mettevo alla prova. Ma sa com’è la televisione, quando c’è un successo vogliono spremerlo fino in fondo. Così si fa il Superkaraoke con i Vip, finisco a Roma con un delirio, il sindaco Francesco Rutelli che canta con me». Mica male, Rutelli. «Ma intanto incasso la prima sconfitta autentica. Le prendo da Paolo Bonolis, la mia bestia nera, che con "I cervelloni", mi fa un mazzo tanto. Ed evidentemente sconfitta chiama sconfitta: vado a Sanremo, 1995, con "Finalmente tu" di Max Pezzali, con in testa la corona del vincitore annunciato. Sul palco dell’Ariston la voce mi viene fuori un po’ faticosa. Il giorno dopo, un massacro. Scrivono "carriera finita, un bluff". Ne esco con le ossa rotte». Siamo a un altro bivio: «Capisco che devo lasciare Milano. Tutto andava troppo veloce. Non parlo delle mie disavventure personali, anche se non ho avuto nessuna conseguenza giudiziaria, niente: ma a distanza di dieci anni sono ancora nella lista, non appena c’è una storia di coca c’è qualcuno che mi chiede un commento». E allora Fiorello va a Roma con Maurizio Costanzo: «Facevo "La febbre del venerdì sera" e poi "Buona Domenica" il sassofono gliel’ho inventato io, dovevamo batterci contro la Venier che era una macchina da guerra». Di notte, al "Costanzo Show", «raccontavo cose, fatti, Aldo Grasso parlò di un Fiorello "pasoliniano"». Addirittura. «Ma avevo voglia di lavorare da solo, anche se sapevo che Costanzo ci sarebbe rimasto male». Figurarsi se il ras ci rimane bene. «Ma incontro Bibi Ballandi, uno che suggerisce prudenza sussurrando con il tipico accento romagnolo e la esse molle: "Ricordati che bisogna volare basso". Ballandi si sbilancia, come può sbilanciarsi uno come Ballandi, e mi dice: "Se ti metto vicino qualcuno che ti aiuti, che ti consigli, che ti ripulisca un po’, hai le potenzialità per fare il sabato sera su Rai uno"». Come in effetti sarebbe avvenuto, con le edizioni di "Stasera pago io", il programma costruito con Giampiero Solari. «Ma volete capirlo che io, il ragazzo del Valtur, mi sono trovato a fianco gente come Dustin Hoffman, Liza Minnelli, John Travolta, Fanny Ardant?». Successo inarrestabile. Anche se l’evento principale di quegli anni, siamo al 1996, è tutto personale: «Ho incontrato mia moglie, Susanna Biondo, e ho conosciuto il cambiamento vero. Perché lei era ed è una donna che mi ha portato in casa la stabilità: con una figlia, Olivia, che adesso ha 13 anni ed è come figlia mia. Abitiamo a Roma, verso il quartiere Fleming, e aspettiamo la nascita di Angelica, che arriva a luglio». Fa una vita da impiegato, più che da artista: «Non ho la Ferrari, uso la Panda. Vado al bar al mattino come tutti, la gente è contenta di vedermi ma senza eccessi. Con Susanna ci siamo sposati nel 2002, un passaggio ulteriore nel senso della vita sicura, e quando il lavoro è finito ce ne stiamo in famiglia». Sul lavoro sono un gruppo, una squadra a metà fra la tribù e la factory: «Con la radio ho ritrovato Marco Baldini, reduce dalle sue disavventure di gioco. Mia sorella Catena lavora con l’organizzazione. Il mio manager, Antonio Germinario, lo avevo conosciuto come cliente di un villaggio turistico dove lavoravo. Antonio Cifariello è con me da sempre». Gli altri della squadra, con Baldini, sono Francesco Bozzi, Alberto Dirisio, Riccardo Cassini, Federico Taddia. Le manca la televisione, Fiorello? «Non ne sento il bisogno. Con la radio, tutti i giorni ci inventiamo qualcosa che raggiunge il pubblico. E va anche sui giornali, perché abbiamo inventiva, leggiamo tutto, seguiamo l’attualità. Io non faccio proclami politici, perché lo spettacolo è di tutti, e non si possono dividere le platee fra destra e sinistra. Ma nella vita ho avuto un bivio dietro l’altro, e so che cosa significa scegliere». E il prossimo bivio, Rosario? È a Sanremo, per salvare il Festival? «Il prossimo bivio significa diventare un buon padre». n

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