Soffusa, a sinistra, da un alone di mito che lei rifiuta con troppa enfasi, «non io, i miti sono una proiezione altrui, io non c’entro», nella sua alta coscienza di sé Rossana Rossanda sa benissimo di avere pubblicato il libro più bello dell’anno, tanto da fare schiattare d’invidia la romanzeria italiana. Libro che si intitola "La ragazza del secolo scorso" e che, appena pubblicato da Einaudi, è subito diventato un santino per una quantità di orfani e orfane della sinistra più fremente. Ed è per questo clima di adorazione che converrà prima di tutto accennare quali sono i difettucci di un libro piuttosto straordinario. Innanzitutto, basta la prima lettura veloce per notare che la scrittrice Rossanda è rimasta, buon per lei e la sua età, una di quelle che giovanilmente pensano "tanto peggio per i fatti", se è vero che sbaglia l’anno in cui Enrico Berlinguer andò ai cancelli della Fiat, «contro la prima grande cassa integrazione: furono quarantacinque giorni gloriosi ma fuori tempo massimo». Così fuori tempo massimo che la Rossanda scrive 1979, ed era già il 1980. Meno suggestivo di questi slittamenti della memoria è un editing che lascia qua e là ripetizioni un po’ noiose, e certi svarioni come «c’erano dei microclima», o l’uso dell’aggettivo "corrusco" all’opposto del suo significato. Bisogna premettere tuttavia che almeno metà del libro è narrazione pura, svolta con uno stile così personale che prima di accettarlo come necessario, giusto, logico, bisogna entrarci e lasciarsi prendere, superando una certa diffidenza immediata. E quindi gli errori blu si possono anche prendere come licenze narrative, giochi trasognati della memoria. I primi capitoli infatti sono la storia di un’infanzia e di un’adolescenza. La vita famigliare a Pola, il disastro economico del padre notaio in seguito alla crisi del ’29, le stagioni in parcheggio dagli zii a Venezia, la famiglia che si riunisce a Milano senza che mai la vecchia cicatrice si sanasse del tutto. Poi il "Bildungsroman" dell’università, gli studi con Banfi e Marangoni, la guerra, i bombardamenti, il contatto con la Resistenza. Tutto raccontato con la leggerezza misericordiosa di chi ricorda la propria gioventù ed è capace di farla diventare ritmo e atmosfera: pagine stupende sulla Milano bombardata, sugli studi alla Statale, sulla guerra che c’era, eccome se c’era, ma si fingeva che non ci fosse perché non alterasse la vita. Non è detto allora che il "journal" della Rossanda vada letto seguendo la sua evoluzione politico-culturale. Dato che lo sfondo politico è il solito problema degli ingraiani contro gli amendoliani, rivoluzione o riforme, leninisti o luxemburghiani, si può stare fuori dalla teoria, dai «rapporti di forza», dal marxismo più o meno eccentrico e andare liberamente a caccia di episodi. Alcuni drammatici, come nel 1956, invasione dell’Ungheria, una foto che mostra un funzionario comunista impiccato a un fanale, mentre sotto di lui ridono due operai di una fabbrica in sciopero: «Fu la prima volta che mi dissi: Ci odiano. Non i padroni, loro, i nostri ci odiano». Qui ci vuole la forza di uno stile per chiudere quella tragedia con un tocco impressionante: «Era un odio massiccio, sedimentato, non si arriva a queste enormità senza un’offesa lungamente patita. Quei giorni mi vennero i capelli bianchi, è proprio vero che succede, avevo trentadue anni». È la stessa economia delle parole a innescare un brivido. Inutile chiedersi per quale ragione una giovane intellettuale, laureata in lettere e quasi laureata in filosofia, dotata di una spaventosa sicurezza di giudizio, non trae le conseguenze. Ma davvero eravate ciechi, non vedevate, davvero non sapevate?, le chiede incredulo K. S. Karol, l’«antistalinista ma non anticomunista» divenuto il suo compagno dopo la separazione da Rodolfo Banfi. Macché: il mondo della Rossanda è hegeliano, tutto il reale è razionale, e quindi la realtà del Pci implicava la razionalità dello starci dentro, e gli errori giustificavano teleologicamente se stessi. Da ciò deriva lo schema autoassolutorio e ineluttabile che seppellisce le obiezioni: abbiamo sbagliato tutto ma avevamo ragione. Le cecità, i dérapage, le omissioni derivano dall’etica della responsabilità verso il partito, verso le masse, verso chi aveva trovato nel Pci un mondo a parte in cui ripararsi. Errori su errori, ma per le ragioni giuste. E c’è sempre una ragione, anche se il prezzo di tutto questo è una cortina di corrività alla ragion di partito, screziata di arroganza intellettuale. Sarà anche per questa fede coattiva che il codice dogmatico del Pci conserva un suo fascino implacabile. Si legga dell’incontro a cena, in una «modesta trattoria» con Luigi Longo, salito a Milano per indurla ad accettare l’invito a dirigere, a Roma, la sezione culturale del Pci. Lei nicchia, accampa «le urgenze», «le molte ragioni per declinare l’offerta». «Lui aspettò che finissi poi proferì: Ascoltate. Io non invito a cena nessuno, sono avaro. Ho invitato voi perché i vostri compagni mi hanno detto che facevate delle obiezioni all’incarico. Vi ho spiegato perché la direzione ha deciso che veniate a Roma. Non fatemelo ripetere. Trovatevi a Roma a dicembre». Lei resta a bocca aperta: «Potevo dire di no, e non sarebbe successa una catastrofe…». Ma alla fine: «Ci pensai due giorni e dissi sì. Come tutti si attendevano». C’è Togliatti che dopo un complicato giro di bozze di "Rinascita", con molte correzioni e annotazioni, a proposito del commento a un discorso di Kruscev sugli intellettuali «di una stupidità sconfortante», di fronte alla sua ultima obiezione le scrive ironicamente: «Chi è il segretario del Pci? Tu o io?». C’è un Pajetta che minaccia retoricamente il suicidio e lei gli spalanca la finestra sul giardino dicendo con sarcasmo «buttati». Un Amendola che va sul personale: «Ti sei messa con Karol? Peccato, una così brava persona», perché ai suoi occhi «io ero già un serpente ingraiano». Longo che nei giorni dell’invasione di Praga la ferma in un corridoio, «il volto teso e gli occhi grigi pieni di collera», per confessarle, sbigottito: «Sapete, non mi hanno neanche informato». Alla fine, anche il più cocciuto degli anticomunisti farà fatica a trattenere l’emozione quando con poche parole il libro racconta il corteo funebre di Antonio Banfi, il professore abituato a curare il collegio senatoriale di Cremona, felice di calarsi nella terra e nella vita dei suoi contadini: «Due giorni dopo, ai suoi funerali, c’erano senato e comune e partito e università e allievi e tutta Milano, e un mare di contadini in bicicletta venuti dal cremonese, un mare mantellato e silenzioso che colmò le grandi strade e rifluì la sera verso le campagne». Per il cacciatore di storie, il clou non è il processo del partito ai deviazionisti del "manifesto" (con lei, fra gli altri, Natoli, Pintor, Magri, Castellina). Ad esempio, il viaggio a Cuba, nel 1967, è un prodigio di umorismo. Fidel Castro che ammette pensosamente problemi e contraddizioni: «Sì, i contadini non volevano mollare la terra. Che fare? Hay que fusilarlos?». E quando il discorso si sposta sull’Urss, «non ne sapevano nulla… Ascoltarono con stupore quando, sentendo troppe sciocchezze, parlammo del gruppo leninista, degli anni Venti, e Trenta, i processi, la guerra». «Riportandoci all’albergo, Castro ancora ruminava, possibile che Stalin avesse fatto ammazzare Trockij, gli pareva un’enormità. Non l’aveva mai saputo…». Naturalmente il libro della Rossanda si può leggere in tutt’altro modo. Più politico. Più simpatetico. Più storicamente e dialetticamente avvertito. E poi magari concludere che ad esempio la signora in rosso ideologizza e mitologizza l’autunno caldo, ossia «la più grande e colta lotta operaia del dopoguerra», che grazie alla sapienza operaia porta addirittura aumenti di produzione sgraditi al capitale. Si può ragionevolmente obiettare che il suo racconto elude, e dove non basta l’elusione subentra l’amnesia. Si può dire che sfoggia il senno di poi. Che è costellato di giustificazionismi. Ma non importa. È un gran libro: quindi tanto peggio per i fatti.
27/12/2005