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Perché il dopo Silvio si chiama Gianfranco

08/02/2007

Sono passati più di 13 anni da quando Silvio Berlusconi sdoganò Gianfranco Fini, in lizza contro Francesco Rutelli per il Campidoglio. Era la fine di novembre 1993, la "location" un ipermercato a Casalecchio di Reno, appena fuori Bologna, e il Cavaliere dichiarò fra lo sconcerto di molti che se avesse dovuto votare per le comunali di Roma avrebbe scelto il capo missino, perché «le sue idee sono le mie». Non c’era ancora stato il lavacro di Fiuggi, e agli occhi di molti il giovane Fini rappresentava una destra non potabile. Ma il progetto di Berlusconi era già chiarissimo. Non c’erano più confini o esclusioni, nel centrodestra prossimo venturo. Dentro tutti. I fascisti erano già postfascisti, almeno nella sua visione politica e nella sua concezione del sistema maggioritario. Con gli anni, Fini si è guadagnato i galloni dell’alleato più fedele. Tanto da meritarsi la designazione a successore di Berlusconi in un altro luogo eccentrico, la premiazione dei Telegatti. A cui sono seguite precisazioni, smentite, proteste, in particolare della Lega e dell’Udc; mentre sono risultati piuttosto smorzati i commenti dentro Forza Italia, in cui c’è almeno una figura politica, Giulio Tremonti, che per cultura e come uomo di cerniera tra forzisti e Lega potrebbe ragionevolmente ambire alla successione. In ogni caso l’indicazione c’è stata, un autentico "dedazo" alla messicana (quando il presidente uscente, capo del Partito rivoluzionario istituzionale, indicava teatralmente con il dito il suo erede alla presidenza). Ed è possibile che le discussioni in proposito siano più figurative che reali. Perché Berlusconi ha bisogno di Fini, se vuole effettivamente realizzare il "partito unico dei moderati", il rassemblement che dovrebbe riunire il centrodestra futuro, deideologizzato e privo di quelle articolazioni partitiche così fastidiose per la compattezza di uno schieramento. Berlusconi ha bisogno di Fini perché il partito unico dei moderati richiede un leader riconoscibile sul piano mediatico e nello stesso tempo così duttile culturalmente da risultare attraente per l’intero elettorato di centrodestra. Sotto questo profilo, Fini è perfetto: tradizionalista e innovatore, cattolico ma favorevole alla fecondazione assistita, legato a una concezione classica della famiglia ma senza fissazioni contro le unioni di fatto, il capo di An rappresenta una carta ottima sul mercato politico dei prossimi anni. Ha perso praticamente tutte le connotazioni fasciste e di destra sbrigativa, ha denunciato le leggi razziali mussoliniane come «male assoluto», è stato ricevuto in Israele, ha collaborato con Giuliano Amato nella convenzione europea, si è spinto fin quasi al confine con i popolari europei; a cui si aggiunge come dote personale insostituibile una particolare predisposizione a risultare convincente in televisione. Non ci sono altri candidati alla successione del capo carismatico. O perlomeno non ce ne sono altri in grado di tenere unito il centrodestra fin tanto che le condizioni e le modalità dello scontro bipolare rimangono quelle attuali. In uno scenario proporzionale, che consentisse la formazione di estese aree centriste, Pier Ferdinando Casini avrebbe ancora delle possibilità. Ma è difficile prevedere in questo momento quelle scomposizioni e ricomposizioni del sistema politico che potrebbero rimettere in gioco il leader dell’Udc. Salvo incidenti, dunque, la prospettiva di evoluzione della ex Casa delle libertà è stata delineata. Dovrà nascere un aggregato largo, non stressato sul piano culturale, capace di raccogliere partite Iva e ceti medi, pubblico impiego e imprenditori, cattolici e laici, moderati e radicali. Se il progetto funziona, nessuno meglio di Fini può assumerne la guida. Resta da vedere come si muoveranno allora i non moderati, in primis la Lega di Bossi. È presumibile che il gruppo dirigente del Carroccio apra un conflitto interno, una fase manovriera, la più spregiudicata possibile. Per il futuro del Pum, sono allora più importanti, e anzi decisive, le prossime guerre interne al centrodestra che non il confronto elettorale e parlamentare con l’Unione. Indicato dal dito di Berlusconi, per qualche tempo Gianfranco Fini può stare a guardare: ma ha già capito che il "dedazo" del Cavaliere riguarda lui e lui solo, non il suo partito. Per la successione a Berlusconi serve Fini, non An. E quindi aspettiamoci rapide mosse per anestetizzare il partito, per convincerlo a un’eutanasia utile, alla confluenza nel grande partito del centrodestra. Fini è già pronto, bisogna vedere se sono pronti anche i suoi ufficiali e le sue truppe.

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