Gli spari di via Valdonica, a Bologna, quei colpi di pistola che hanno spezzato la vita di Marco Biagi, non sono stati solo un attentato brutale e disumano. Ci vuole un’intelligenza freddamente distorsi- va per individuare come bersaglio un professore di diritto del lavoro, uno studioso bipartisan nella prassi (ma di cui non erano ignote le simpatie di fondo per il centrosinistra), l’analista e il consigliere di cruciali organi di governo la cui massima esposizione pubblica erano i convegni scientifici e i commenti sul "Sole 24 ore". E occorre una competenza addirittura chirurgica per fare deflagrare questo assassinio alla vigilia della manifestazione indetta a Roma dalla Cgil per sabato 23 marzo, in una fase di aspro confronto politico su un tema simbolicamente rilevante come l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Biagi era stato allievo di Federico Mancini, un giurista scomparso pochi anni fa, che con Gino Giugni e Giuliano Amato aveva espresso al meglio la cultura riformista del Partito socialista. Le sue radici culturali affondavano in una matrice cattolica, come dimostrano anche sul piano della biografia le sintonie intellettuali e il lavoro sul campo con uomini come Tiziano Treu e Romano Prodi: cioè in un terreno culturale che privilegiava un lavoro di mediazione continua fra gli schemi giuridici e la realtà effettuale del mercato del lavoro. Colpire lui non ha significato soltanto mettere sotto bersaglio, come hanno scritto i giornali, "un consulente del governo". Il lavoro del docente bolognese per i governi e i ministri della Repubblica era la dimensione operativa di un’attività intellettuale caratterizzata da un intento febbrile di incrociare le necessità di modernizzazione del paese e delle sue istituzioni giuridiche con il ripensamento del sistema di garanzie per l’emergente società dei "lavori", al plurale, come aveva individuato un altro studioso riformista, Aris Accornero, riferendosi ai mutamenti nella struttura sociale e alle trasformazioni delle attività produttive. Ecco perché il suo assassinio non è soltanto un colpo nel vuoto e nel nulla. Così come Ezio Tarantelli, Roberto Ruffilli e Massimo D’Antona, pur nella differenza dei ruoli ricoperti nella vita pubblica italiana, erano stati immolati con l’esplicito intento di colpire un modello di azione politica, vale a dire nel tentativo di infrangere «la ricomposizione neocorporativa» (in sostanza la politica dei redditi per Tarantelli, il riformismo istituzionale per Ruffilli, la concertazione per D’Antona), Marco Biagi è stato identificato come il fattore umano e intellettuale, e quindi l’elemento più debole e nello stesso tempo esemplificativo, di una politica tesa a governare i processi di trasformazione nella realtà sociale del lavoro. C’è quindi una coerenza accanita, nelle azioni di questo terrorismo: non la follia o la disperazione di frange marginali, non il delirio della rivoluzione di massa da innescare con le pallottole delle avanguardie presunte, non l’impazzimento di nuclei votati al delirio politico. Per questo sono da respingere con fermezza, e anche con indignazione, le tesi secondo cui l’assassinio di Biagi sarebbe il frutto di un clima politicamente e socialmente avvelenato: «la catena dell’odio e della menzogna», «la spirale dell’odio politico» e il «funesto linguaggio degno di una guerra civile» che Silvio Berlusconi ha indicato come il dato ambientale che avrebbe favorito l’omicidio sono gravi deformazioni della tragica vicenda attuale. Non tanto diverse dalle imbarazzanti espressioni con cui l’attuale presidente del consiglio ricondusse la vicenda D’Antona a un regolamento di conti a sinistra. La realtà è un’altra. In generale è quella di un movimento ancora informe ma già semi-ufficiale, non più estraneo al circuito della politica istituzionale (dai centri sociali allo spontaneismo dei girotondi), che rischia ora di essere riconsegnato alla marginalità. In termini di cronaca più puntuale è quella di uno scontro duro ma aperto fra il governo e il sindacato: un conflitto perfettamente legittimo e ineccepibile sul piano democratico, i cui pericoli, che esistono, risiedono nella possibilità che al termine del confronto una parte, la parte sindacale, si ritrovi sconfitta senza realistiche possibilità di recupero. Oppure che l’esecutivo e la maggioranza di centrodestra, in crisi di immagine, si trovino a dover forzosamente recuperare in chiave di potere ciò che avranno perduto in termini di capacità di governo. In ogni caso, che l’impermeabilità delle rispettive posizioni predisponga il campo da un lato al rancore sociale, dall’altro all’avventurismo come rimedio estemporaneo a una qualità riformatrice scadente. A uno sguardo emotivo, potrebbe sembrare che l’uccisione di Marco Biagi avesse come obiettivo una doppia sconfitta: per un verso l’annullamento del "traditore di classe" e quindi qualsiasi forma di complicità anche solo tecnica con il governo di destra, per l’altro l’azzeramento del potenziale sociale del sindacato, con l’ammutolimento delle voci di rappresentanza di una consistente e ancora viva parte, malgrado tutto, della società italiana. Ma neppure questa interpretazione tiene. Nella sua logica infame, l’attentato di Bologna è un esercizio di accademia nichilista. Realizzato da entità che tentano di colonizzare il normale (normale anche quando è durissimo) confronto fra le parti sociali per produrre inceppamenti nell’evoluzione politica. Alla fine resterà un uomo assassinato sotto casa sua e sotto lo sguardo della famiglia, e un documento di terroristi che rivendicheranno la distruttiva lucidità politica consistente nell’avere individuato ed eliminato uno snodo, una funzione di mediazione. Di fronte a tutto ciò, non resta che la lealtà strenua al confronto democratico, in parlamento come nelle piazze: comprese tutte le sue asprezze, le sue incertezze, comprese perfino le sue eventuali strumentalità.
28/03/2002