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Politici di razza bestiale

08/04/2004

Nel bestiario ci sono le bestie. Bestie politiche: qualcuna feroce, qualcuna intelligentissima, qualcun’altra un poco fessa, altre ancora dannatamente imbecilli. Addirittura così stupide da fare male a se stesse e alla propria razza, secondo la nota legge della stupidità umana codificata dal compianto professor Carlo M. Cipolla nel suo aureo manuale "Allegro ma non troppo". Fuor di metafora: come sanno i lettori de "L’espresso", il Bestiario è il regno di Giampaolo Pansa. Un reame dove non ci sono né re né scettri e l’unico potere che conta è l’intenzione di guardare la politica con l’occhio di san Tommaso. Senza campagne, fanfare, buonismi. Con la consapevolezza che il giornalismo non è un mestiere da educande. Ora Sperling & Kupfer fa uscire un’antologia della storica rubrica di Pansa, con un titolo obbligato: "Bestiario d’Italia 1994-2004" (pp. XXVI + 404, 15 euro, in libreria il 6 aprile) e s’impongono subito due considerazioni. La prima. Questo libro esce dopo l’eccezionale successo di "Il sangue dei vinti", il volume che ha aperto uno scorcio inedito sulla violenza post-Liberazione (inedito fino a un certo punto? Si sapeva già tutto? Ma certo che si sapeva tutto, solo che non lo diceva nessuno, e come si sa il genio è la capacità di vedere l’ovvio). Con il "Bestiario" si rientra in un ambiente un po’ più mediocre, dove comunque un’allegra famiglia di animali si scanna, almeno allegoricamente, e viene scannata dall’altrettanto allegra crudeltà di Pansa. Se dopo il 25 aprile del 1945 il sangue era quello dei fascisti trucidati dai vincitori, nel "Bestiario" siamo invece in una materia che è quella imbottigliata a suo tempo dal sulfureo socialista Rino Formica: «Sangue e merda». Prosit. Almeno si conoscono gli ingredienti. La seconda considerazione dice invece che questo "Bestiario" accompagna i dieci anni della nostra tormentata e faziosa transizione. Dieci anni di epopea berlusconiana, un decennio di bipolarismo, 3.600 giorni di sistema maggioritario, di destra sdoganata, di sinistra sull’ottovolante. È il problema fondamentale di vivere in epoche interessanti, quelle che fanno venire mal di fegato anche a chi è di ottima costituzione. Sicché le epoche interessanti si possono analizzare con gli attrezzi del politologo, con bellissime e fredde astrazioni: oppure con la cassetta del «cronistaccio» (autodefinizione dell’autore), insieme agli umori, al fiuto, alla diffidenza, alle incazzature. Pansa guarda le facce. Scruta i volti. Interpreta le fisionomie. Giudica gli abiti, dato che fanno e non fanno il monaco. Se Silvio Berlusconi è «squaloso» nel suo sorriso assassino, Gianfranco Fini, «faccia da seminarista frustrato», è il «Lasagne» di Alleanza nazionale, un uomo di cui diffidare anche per le sue cravatte rosa, perché sotto la riverniciatura c’è «la violenza di testa e l’arroganza mentale del fascista doc». Oggi Fini ha fatto il possibile per sfuggire all’etichetta nera, e ha anche corretto la pastosità bolognese e le consonanti al ragù, e forse Pansa ha modificato la propria idea su colui che in una Festa dell’Unità, a Modena, settembre 1994, in una leggendaria serata con il compagno Montanelli e Paolo Mieli, definì tra le sghignazzate del popolo rosso «un fascista con la faccia da prete». Ma il 1994 è l’anno del grande choc, con l’epifania e la vittoria di Berlusconi, la scoperta drammatica che l’Italia non era di sinistra, e che la gioiosa macchina da guerra era un catorcio. Sicché gli studiosi si misero a pensare schemi complicatissimi, e a inventare formule via via più perfette, semplicemente per dire quanto segue: «Stampiamoci nel cervello questa verità: se la sinistra in Italia non riesce a vincere si deve costruire qualcosa che non sia la sinistra, ma che la contenga». Stop. Tutte le elucubrazioni sul "partito democratico" in una sola frase. Tutto il Michele Salvati del 2003, tutta la lista unitaria, tutto il pensiero e la strategia di Arturo Parisi, tutta la visione di Romano Prodi in una ventina di parole. Il "Bestiario d’Italia" si può leggere in tanti modi: come una cronaca, come una storia, come un commento. Ha tutti i difetti dell’essere stato scritto a caldo, e l’onestà di non essere stato tartufescamente taroccato a posteriori; ma soprattutto ha la virtù immensa di essere parziale, sincero, immediato. Fra i modi di leggerlo ce n’è uno infallibile, che consiste nell’andare a caccia dei ritratti pennellati da Pansa. Prendere per esempio il bozzetto dedicato a Giuliano Ferrara, alias Cicciopotamo, «il pope barbuto», il «socialista islamico» che al congresso del Psi all’Ansaldo di Milano scende dal palco esclamando: «Ho fatto un numero alla Italo Balbo!». Selezionare anche il cammeo dedicato a don Gianni Baget Bozzo, e alle sue manie di attribuire l’eterno alla politica, prima a Craxi e poi, riciclando, a Berlusconi. Oppure ecco la sintesi con cui dopo il ribaltone di fine ’94 Pansa riassume il giudizio dei forzisti e di An nei confronti di Umberto Bossi: «Quel giuda leghista è un ladro. È un ubriacone laido. È un pazzo che crede di essere Napoleone. È una miserabile merda politica che ammorba le tende degli ex alleati. È il cancro che ha tentato di uccidere il sogno di milioni di elettori…». Sangue e merda, per l’appunto. Più merda che sangue, grazie al cielo. E soprattutto una irrefrenabile avversione verso la nuova destra e verso il suo capo, verso il «capo dei centurioni», «Silvio, l’Unto del Signore, un bugiardo senza vergogna. Un demagogo capace di ogni trucco. Un cinico senza rivali nell’usare la tivù come la piazza Venezia del 2000…». Il "Bestiario" è entusiasmante quando allinea «un La Russa tanto fosco da sembrare un incrocio tra un becchino e un vampiro». Oppure il Parolaio Rosso, in arte Fausto Bertinotti, con il suo «micidiale bla-bla», che sta in tv come un pesce nell’acqua, perché la televisione è la «giungla vietnamita» del subcomandante guerrigliero che manda in malora il primo governo dell’Ulivo. Perché Pansa non ha fisime nel parlare male della sua parte, la sinistra: lancia i suoi fulmini contro D’Alema e Veltroni dopo il caso di Affittopoli, dato che «mia nonna diceva: "I poveri devono sempre avere le mutande pulite, perché, se gli capita di andare all’ospedale, a loro non perdonano niente"». Festeggia la vittoria di Prodi nel 1996 («Ha vinto il Parroco, ha perso Mandrake»), ma segnala che è atteso da sfide tremende, e subito dopo, insieme al dioscuro Claudio Rinaldi, si mette di traverso e inventa la figura ibrida, un’autentica chimera, uno scherzo del darwinismo politico, ossia «Dalemoni», l’incrocio fra D’Alema e Berlusconi, anzi un D’Alema berlusconizzato che all’improvviso scopre una sensibilità antigiustizialista e a causa dell’«inciucismo, malattia senile del dalemismo», tresca con il Cavaliere nella Bicamerale, in uno «stupefacente kamasutra». Poi, si sa com’è finita. È finita che i furbissimi della sinistra, D’Alema in testa, hanno perso le elezioni, e soprattutto hanno perso il potere. E Pansa, nel tramonto chissà quanto lungo del centro-sinistra, ha maturato una disillusione quasi crepuscolare. In cui la voglia di fare i conti con il passato (con il terrorismo di sinistra, ad esempio, che è soltanto «la storia delle vittime») si unisce alla diffidenza per il presente, per i pacifisti e i girotondini, per la sinistra parolibera. Fino a un residuo atto di fiducia per il Prodi 2: ma sapendo già che è l’ultima occasione, mentre intanto la propensione alla guerra intestina è sempre viva, come accade sempre nei migliori bestiari, con la più normale delle bestialità.

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