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Premier in caduta libera

31/12/2003

Regnava sull’Italia la legge dell’immagine, strategia rivoluzionaria per la politica domestica. Ho vinto tutto, sono l’unico che può fare ripartire questa vecchia e stanca Italia, sono liberista, centrista, degasperiano, americano, rifondatore dell’Europa. Trasformare la politica estera in una soap opera, i rapporti fra le cancellerie in pacche sulle spalle, corna sulla testa, prese a braccetto e boutade cameratesche. Non si può negare a Silvio Berlusconi la dote di avere capito i meccanismi della società contemporanea. Comunicare, comunicare, comunicare. Ripetere all’infinito che la battuta del kapò rivolta all’eurodeputato Shultz provocò un’ilarità generale fra i «turisti della democrazia» del Parlamento europeo. Sono storie, distorsioni della realtà, rifrazioni speciose? Non importa. Ripetete, ripetete, qualcosa resterà. Ma la realtà ha la cocciuta tendenza a rifarsi viva, al di là dei cactus della villa in Sardegna, oltre il riflesso del kolossal finto-marmoreo di Pratica di Mare, dopo una conversazione «alla seconda bottiglia di champagne» dove si dicono cosucce da bar su Mussolini e il fascismo come dittatura benevola. Tanto più che il presidente del Consiglio non solo pretende che il pubblico creda alla sua verità. Ci crede anche lui, artefice e vittima delle proprie invenzioni. «Sono alto come Tony Blair», e soprattutto "eppure son simpatico": va da sé che l’innata cordialità, il tratto compagnone, la bonomia meneghina consentono exploit altamente istituzionali, come il goliardico «parliamo di calcio e donne» che all’ultimo vertice apre la cena con Schröder e lascia allibito il reparto donne dell’Unione europea: aggravato subito dopo dal «Gerhard, tu che hai una certa esperienza, dacci qualche consiglio». Vabbè che con le donne va così così, se Veronica Lario confessa a Maria Latella che lei è una casalinga e legge i giornali (anzi, è titolare di una quota del "Foglio" di Giuliano Ferrara), contrariamente all’opinione del marito secondo cui le massaie non consumano un prodotto obsoleto come i quotidiani. Quanto al calcio, c’è una folla televisiva di reduci dalla delusione di Yokohama, dove il Milan è stato sconfitto dagli argentini del Boca Junior dopo una serie di rigori tirata catastroficamente dai rossoneri (con il giocatore intrinsecamente più berlusconiano del Milan che con una pedata disastrosa solleva dal dischetto una zolla di due chili, come un dilettante di sinistra). Sciocchezze, se non fosse che i vincitori devono sempre vincere. Ma vincere non è così facile sulle faccende serie, sulla Costituzione europea ad esempio, dove i duri giocano duro veramente. Serve a poco annunciare di avere in tasca la «formula segreta» capace di mettere d’accordo tutti sul sistema di voto, quando alle spalle c’è il ricordo della grave defezione innescata con la lettera degli otto paesi al "New York Times" che si schierava con l’unilateralismo di George W. Bush, contro l’Europa "carolingia" e pacifista di Chirac e Schröder. Oppure la censura europea sulle dichiarazioni iper-putiniane a proposito delle "leggende" in Cecenia. Succede poi che ci si ritrova a dover ballare fra la posizione francese e tedesca, alleati sul sistema di voto, e la dura opposizione di spagnoli e polacchi, alleati di ieri sulla guerra in Iraq, con l’amico Aznar che si guarda bene dal cedere alcunché in nome dell’amicizia e dei regali di nozze. Il Cavaliere raccoglie quanto ha seminato, è il commento che si registra nei pressi della Commissione europea. Dopo il vento, la tempesta. Il grande federatore, l’uomo che era partito per Bruxelles annunciando di avere in tasca la «formula segreta» per un accordo «alto e nobile», ha dovuto tagliare il vertice riconoscendo l’impossibilità di trattative ulteriori. Romano Prodi era stato freddissimo sulla capacità berlusconiana di produrre miracoli in sede europea. Le consultazioni telefoniche con Carlo Azeglio Ciampi erano state tese, e si capisce: un europeista classico come il capo dello Stato, l’artefice del risanamento maastrichtiano e dell’ingresso nell’euro, di fronte a un realista scettico come Berlusconi, patron di quel Giulio Tremonti che aveva collaborato attivamente per incrinare il Patto di stabilità. Nessuno è autorizzato a individuare una connessione tra il fallimento del semestre e della conferenza intergovernativa («Un trionfo», per il capo del governo) e il fulmine arrivato dal Quirinale sulla legge Gasparri. Resta il fatto che la combinazione dei due eventi in stretta successione è risultata distruttiva. Erano settimane che l’area berlusconiana stava plasmando un clima favorevole alla legge sul sistema televisivo, alternando dichiarazioni di massimo rispetto formale per l’autonomia del Colle e una pressione avvertibile, esemplificata da un editoriale sul "Foglio" di Giuliano Ferrara, secondo cui il rinvio alle Camere avrebbe comportato una qualificazione di Ciampi come giocatore politico, non più come arbitro. Ora, il documento con cui Ciampi ha motivato il rinvio appare ineccepibile e severamente circostanziato: non si può risolvere il dilemma di oggi con le opportunità di domani, il monopolio attuale con il futuribile del digitale, il controllo effettuale di Rai e Mediaset con l’annacquamento della televisione nel fantomatico Sic. Anche se Berlusconi, sempre per la legge dell’immagine, ricorre al latinorum e dice che «non c’è vulnus» per il governo, e poi si incattivisce dicendo che non leggerà le motivazioni dei «tecnici del Quirinale», tutto si accartoccia su se stesso. Ripresentare la legge così com’è equivarrebbe ad attaccare frontalmente il Quirinale, rischiare una violenta delegittimazione del presidente della Repubblica, e ciò non sembra raccogliere la disponibilità di An e dell’Udc. Conseguentemente, il conflitto d’interessi raggiunge un livello parossistico nel momento in cui il salvataggio di Retequattro con un decreto ad hoc sarà affidato per decenza alla firma di Gianfranco Fini, e non del premier-padrone. Ma l’uragano che sta investendo Berlusconi non riguarda soltanto le relazioni internazionali e il rapporto con un establishment economico che guarda con sempre maggiore delusione l’attività del governo. Si sa che la riforma delle pensioni è un provvedimento a sua volta d’immagine, una legge hard rinviata nelle nebbie soft del 2008; che Luca Cordero di Montezemolo, nelle vesti di presidente della Fieg, avrà accolto con sollievo il rinvio della Gasparri, legge che gli editori di giornali avevano sempre osteggiato. Ed è vero anche che il governo non si era guadagnato attestati di fiducia dopo che un pezzo di Finanziaria era stato folgorato dagli uffici della Camera causa uno sforamento "invisibile" di 3,2 milioni di euro. Eppure il ciclone anti-Berlusconi non sarebbe così preoccupante per l’interessato se non ci fossero condizioni esplicitamente politiche a lui sfavorevoli. Detto in modo brutale: se non si fosse aperta da un paio di mesi la corsa alla successione. Spiegare perché si sia cominciato a parlare del post-Berlusconi non è di immediata evidenza. C’è sicuramente una parte dell’élite economica che sta rovesciando il pollice nei suoi confronti. Ma soprattutto siamo davanti a un panorama politico in cui i possibili successori, gli autocandidati al post, hanno tutti cominciato a stringere i pedali per la volata alla successione. Gli ingredienti della ricetta post-berlusconiana sono quasi tutti sul tappeto: verifica, rimpasto, questione-Lega, resa dei conti con Tremonti. Aggiungere i guai giudiziari di Cesare Previti, mascherati da un’altra operazione d’immagine che ha trasformato una condanna in una sostanziale assoluzione. Prevedere altre forti turbolenze nel caso che la Corte costituzionale rigetti il lodo Schifani restituendo il premier alla condizione di imputato. Agitare il cocktail con il riesplodere, dopo mesi di silenzio, dei vociferii sulla salute del signore di Arcore, questa volta trapelati anche sulla prima pagina di un quotidiano sensibile al gossip politico come "Il Riformista". Non basta? E allora mettiamoci anche i sondaggi sfavorevoli, non escluso il virtuale sorpasso inerziale del centro-sinistra. Tutte condizioni che si accendono di colori rame e ruggine, come in un autentico autunno del patriarca, non appena si pensi al tempismo con cui Gianfranco Fini, secondo l’interpretazione offerta da Eugenio Scalfari, ha trasformato il suo partito in un potenziale sostituto popolar-conservatore di Forza Italia; e alla sapienza politica attendista, abituata ai tempi lunghi, ma chirurgicamente puntuale nei tempi brevi e brevissimi, con la quale Pier Ferdinando Casini e Marco Follini amministrano il loro piccolo patrimonio neo- democristiano, pronti a traghettarlo nella Repubblica del dopo-Berlusconi. In altri tempi, ci si poteva aspettare un colpo di genio del grande improvvisatore, del grande manipolatore, di quel talento comunicativo chiamato Silvio Berlusconi. Un appello diretto al popolo, la ricerca del plebiscito. Ma fra il popolo e il leader mediatico, come fra realtà e immagine, sembrano essersi schierati troppi fattori e troppi soggetti di interposizione. E senza la possibilità di mobilitare il popolo, Berlusconi non è più il capo populista. È sempre di più l’immagine di un uomo solo.

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