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Prigioniero del doppiopetto

01/11/2001

Saranno gli impacci del doppiopetto. Basta che Silvio Berlusconi metta piede all’estero per assistere a qualche scivolone. L’intempestiva dichiarazione di superiorità occidentale, l’altezzosa lite d’ambasciata con i belgi, la trafelata trasferta alla Casa Bianca, le rivendicazioni della «nostra alleanza con il presidente Bush», l’affannosa offerta di truppe: ciò che al capo del governo riesce benissimo entro i confini domestici, cioè l’autopresentazione come leader carico di compiti storici, sul piano internazionale si affloscia. In questo senso, lo "schiaffo di Gand", cioè il pre-vertice esclusivo fra Chirac, Blair e Schröder, rappresenta solo la glossa a margine di un decalogo europeo e atlantico secondo cui il governo italiano va benissimo quando si allinea, ma va malissimo quando solleva il torace e alza pretese. Era un vieto provincialismo, quello che faceva pronunciare agli esponenti della Casa delle libertà proclami impettiti secondo cui l’Italia «deve contare di più in Europa», ed è una ritorsione provinciale anche la sottovalutazione stizzosa di Berlusconi del nuovo "direttorio" europeo («Avranno parlato di affari loro»). Ci sarà pure un motivo se il capo del centrodestra italiano sembra diverso perfino antropologicamente dai suoi colleghi europei. Sarà ostinazione puerile riscontrare questa diversità anche nell’abbigliamento, eppure non cessa di stupire, ogni volta, l’apparizione del doppiopetto berlusconiano in mezzo a una sequenza di giacche europee a petto unico. Perché il doppiopetto è un capo impegnativo, che segnala un sovrappiù di impegno cerimoniale; oppure indica un senso della personalità che pretende di manifestarsi con un tratto di esteriorità irrinunciabile. Minuzie, ma erano minuzie anche le mutande e le fioriere del G8. La prudenza e la furbizia di un governante ultimo arrivato dovrebbero consigliare capacità di mimetizzazione. Mentre Berlusconi non ha mai nascosto l’irrefrenabile soddisfazione per avere instaurato rapporti di fervida amicizia con i leader mondiali, fino a convincersi che il suo humour e la sua personale esuberanza lo avevano imposto definitivamente fra le «teste coronate» (ipse dixit). Solo che la caratura internazionale non si inventa con le barzellette e neanche con l’entusiasmo velleitario dei parvenu. La dignità europea dell’Italia è stata riguadagnata prima dal faticoso lavoro di Prodi e Ciampi, con il duro risanamento irriso allora dal centrodestra, e poi dalla credibilità internazionale di D’Alema sul Kosovo. Oggi un ruolo più rilevante del "quarto grande" dell’Ue potrebbe essere assunto con una tessitura paziente, con dimostrazioni assidue di affidabilità, piuttosto che con pretese di protagonismo fuori luogo. La Casa delle libertà stenta a capirlo, e di fronte al ripetersi di botte sul muso reagisce con mediocri mugugni dalla provincia profonda, o con piazzate di regime a stelle e strisce. Qualcuno, a cominciare da Renato Ruggiero, potrebbe avviare qualche lezione alla Farnesina per spiegare che per conseguire prestigio non è il caso di gonfiare il petto. Neanche se doppio.

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