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Quel libertino vale un Tesoro

17/01/2002

Si può restare un tecnico mentre la politica tende a occupare tutti gli spazi e la bipartisanship è un ricordo? Domenico Siniscalco, insediato da poco più di tre mesi al posto di Mario Draghi alla direzione del Tesoro, ha passato una vita a rifiutare posizioni politicamente impegnative. Aveva glissato con sapienza anche quando l’entourage di Francesco Rutelli l’aveva sondato per coordinare il programma economico dell’Ulivo. Perché un conto è essere al centro di una rete, un altro farsi impigliare da una sigla. Fino a settembre, quando è affiorata la sua candidatura, vantava la carriera di un libertino. «Bravissimo», secondo Gianni Agnelli, ma soprattutto versatile. Docente di economia a Torino, editorialista del "Sole 24 ore", direttore della Fondazione Eni Enrico Mattei, consulente di cinque o sei governi della Repubblica, rapporti internazionali, board europei, e poi un vortice di ministri, economisti, consigli d’amministrazione. E adesso, come si trova a capo di quella che non è solo la più qualificata tecnostruttura italiana, ma anche uno snodo del potere politico? Con Giulio Tremonti per ministro, e la Casa delle libertà al governo? È o non è una scelta di campo? Lui razionalizza: «Nella mia carriera ho sempre avuto in mente uno schema che connette la ricerca con l’area delle decisioni pubbliche». Ripercorriamola, la carriera. Il liceo Alfieri a Torino, l’università a Giurisprudenza: salvo filarsene per sei mesi negli Stati Uniti a respirare economia al Mit. Dove insegna Franco Modigliani, Sylos Labini fa il semestre, studiano Mario Draghi, Francesco Giavazzi, Ezio Tarantelli. Mentre a Torino… «Scopro che c’è un dipartimento in bilico fra Scienze politiche e Giurisprudenza, con docenti di prim’ordine. Francesco Forte, Claudio Napoleoni, Bruno Contini, Siro Lombardini. Ci sono Franco Reviglio, Mario Monti, e Franco Momigliano, che mi guida nella tesi di laurea». È l’embrione di una rete. Per il momento accademica. Solo che, appena laureato, incontra a Venezia il futuro Nobel per l’economia Richard Stone, che lo invita in Inghilterra, a Cambridge. Dove più tardi comincia un dottorato, agevolato dal fatto che venivano ammessi dei va e vieni con l’Italia: «Perché nel frattempo Reviglio era diventato ministro delle Finanze nel primo governo Cossiga, e mi aveva chiamato a Roma come consigliere economico». Dice che a Cambridge impara «a pensare come un economista». Che in Italia si filosofeggiava, tutti erano molto macro, molto vaghi, molto politici. In Inghilterra, altra musica: «Cambridge ti plasma, esci che sei uno dei loro. Erano scomparsi i grandi keynesiani, Nikolas Kaldor, Joan Robinson, Richard Kahn. Si vedeva ancora Sraffa, con un pellegrinaggio di italiani. Ma stava arrivando la modernizzazione, con i neoclassici, Frank Hahn, Partha Dasgupta, Ken Arrow. Una virata culturale, eccitante». Era già una vita moltiplicata per due: la teoria a Cambridge, e a Roma, con Reviglio, la pratica, in una squadra di enfant prodige: Giulio Tremonti consigliere giuridico, Alberto Meomartini addetto stampa, mentre fra i consiglieri senior c’erano un Vincenzo Visco non ancora allergico a Tremonti, Antonio Pedone, Franco Gallo. Quando Reviglio diventa presidente dell’Eni, lo chiama come assistente (l’altro era Franco Bernabè), e più tardi lo mette a capo della neonata Fondazione Mattei, un think tank sull’economia dell’ambiente destinato a fare scuola. Finché non arriva il momento cruciale del governo Amato. «È la primavera del 1992 e Amato prepara il programma, che prevede prima una correzione d’urto dei conti e poi una fase strutturale». I dietrologi dicono che era il programma per Craxi capo del governo. «Era un programma». Craxi non passa e Scalfaro dà l’incarico ad Amato. Reviglio è al Bilancio, Barucci al Tesoro. Parte la prima manovra del 1992, quella da 30 mila miliardi, ma la crisi incombe. Un’estate con la tensione altissima. «Non si dormiva. È stato decisivo il ruolo di due persone: Draghi come custode del debito, e Monorchio come guardiano della spesa. In una situazione da incubo, perché si percepiva il rischio dello smottamento. Con l’insolvenza dell’Efim i tassi schizzarono all’insù, e si rischiò il tracollo». Drammatica crisi valutaria a settembre, e manovra choc per altri 90 mila miliardi. «Da mettere i brividi. Poteva essere un trauma insostenibile per il Paese. Invece funziona. Così, quando Ciampi subentra ad Amato può dare la seconda botta, quella sui salari, con la concertazione. Io continuo a collaborare, con Barucci, al Tesoro». Con Berlusconi, invece, niente collaborazioni dirette. Neanche con Dini e neppure con Prodi. Solo una mano a Tremonti nel 1994, per il Libro bianco sulla riforma tributaria. A richiamarlo in servizio è sempre Amato. «Con D’Alema facevo parte del giro dei consiglieri messo su da Nicola Rossi. Amato, ministro del Tesoro dopo che Ciampi era salito al Quirinale, mi ha chiesto di entrare nel cda della Telecom». Cioè a mostrare il grugno a Colaninno. Per venirsene fuori con tempestività poco prima che i bresciani vendessero tutto. Adesso, è arrivato il cambiamento di vita: l’ambientalismo, la new economy, gli "incubatori" di nuove imprese appartengono al passato. La scommessa è rimanere un libertino anche fra le mura della Casa delle libertà.

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