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Quel Toro sembra un vitello

07/10/2005

Il successo della fiction di Raiuno "Il grande Torino" (oltre nove milioni di spettatori) è stato funestato da un ukase del ministro Mario Landolfi, che si è scagliato contro la mini-serie di Claudio Bonivento (e anche contro il Montalbano pro-noglobal): per l’esponente di An, i film di Raiuno «trasudano comunismo». Si potevano rivolgere molte critiche al "Grande Torino": ci sono troppi violini in colonna sonora, i meridionali sono troppo meridionali, certi giri di sceneggiatura sono troppo bruschi, e soprattutto il grande Torino non si vede mai. Difatti, quando toccano il pallone, i caratteristi un po’ in età che impersonano i giocatori della squadra granata rivelano chiaramente la loro desuetudine agonistica, e quindi la regia glissa (anche se Giuseppe Fiorello, che interpreta Valentino Mazzola, fisicamente se la cavicchia). Ma per parlare di comunismo ci vuole proprio della buona volontà. L’unico paracomunista del film è il fratello del protagonista, che si dà alla politica ma poi inclina al furto, forse per lo choc quarantottesco. Il messaggio sarebbe che i comunisti sono ladri? Valentino Mazzola è tutto squadra e cuore, nonostante il "coming out" nello spogliatoio sulla propria bigamia. Il giovane calciatore Angelo Di Girolamo (Ciro Esposito da giovane e Michele Placido da vecchio), su cui ruota tutto il lungo flashback del film, è un personaggio deamicisiano: ma se lui è Garrone, il fratello è ovviamente Franti, sovversivo ante litteram (come scrisse Umberto Eco). Ci vuole in ogni caso una seria quanto anacronistica inclinazione allo zdanovismo per concepire la fiction contemporanea come prodotto o riflesso obbligato di un’egemonia. La fiction deve rispecchiare il clima politico dominante! Guai ai vinti! Ma allora quando cambierà il vento torneremo all’epica proletaria? Chissà se il ministro Landolfi si è accorto di essere il vessillifero di una visione sovietica. Per lo spettatore comune, "Il grande Torino" era debole sul piano dell’emozione: anziché un epos calcistico, con la saga dei Castigliano, Loik, Gabetto, inscenava un epicedio lacrimoso. Tanta società povera, molti buoni sentimenti, ma pochi palloni nel sacco. Buona la ricostruzione d’epoca, ottima, quando si riusciva a vederla, la «sfera di cuoio» con la cucitura. Sarebbe stato un film ad alto tasso di commozione, se alla fine la trama non avesse prevaricato sul mito. E Landolfi sulla trama.

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