Questione politica, problema accademico, dilemma culturale, rivendicazione corporativa: se la storia irrompe nella cronaca vuol dire che i confini della disciplina sono saltati, o perlomeno che la dimensione storica non è più un’area delimitata da professionalità specifiche. Non ci sono più vestali che vigilano sul fuoco sacro. Le bordate scagliate dalla tribuna della "Stampa" dallo storico Angelo d’Orsi contro Giampaolo Pansa a proposito del suo ultimo libro, "La grande bugia", potrebbero apparire anche come l’indizio di una gelosia professionale, uno scontro fra competenze incompatibili. Lo storico di mestiere, detentore di una tecnica, scomunica il cronista, il giornalista, lo storico anomalo, colui che scopre il non detto con il suo fiuto di giornalista. Mettiamoci anche l’insofferenza degli storici di sinistra, quelli che Pansa ha chiamato «i guardiani del faro resistenziale» (riprendendo la definizione di un altro storico di sinistra, Sergio Luzzatto), per gli attacchi che Pansa medesimo ha rivolto alla "mitologia" della Resistenza, e il gioco sembrerebbe fatto: la storia scandalosa dell’Italia partigiana raccontata da un outsider, la sua demolizione della leggenda "etica" della lotta di liberazione, così come anche l’attacco durissimo portato alla vicenda del Pci come forza politica nazionale, rappresentano uno sgarro intollerabile per gli storici professionali di sinistra, e specialmente per coloro che si ritengono depositari di una verità politica canonica. Ma d’Orsi non si è limitato a contestare il «rovescismo» di Pansa, infezione finale e letale del revisionismo: lo storico torinese ne ha attaccato formalmente il metodo. Per il professionista degli archivi e delle fonti esiste una professionalità storiografica che fa i conti con le note a piè di pagina, con le bibliografie, con l’esposizione argomentata dei corredi documentari: insomma per raccontare, revisionare o rifare la storia occorre la capacità esclusiva del professionista, la sapienza analitica dell’accademico. Ora, si potrebbe anche liquidare l’argomento citando uno dei più brillanti storici del Novecento, Philippe Ariès, che si autodefinì con civetteria «historien du dimanche»; oppure ricordando la costante irritazione di Indro Montanelli per non essere stato riconosciuto come storico a tutti gli effetti, nonostante le decine di libri di storia pubblicati; ma risulta più interessante l’idea che lo spazio della storia, in particolare per la storia contemporanea, si sia dilatato come un universo in espansione. Non conviene neppure parlare di divulgazione; l’immagine semmai è quella di un flusso ininterrotto di materiali storici, o di un ingente supermercato dei fatti e delle idee, in cui l’opinione pubblica può trovare il prodotto che vuole. È una storia senza limiti disciplinari, in cui gli skinhead di sinistra che contestano Pansa a Reggio Emilia inneggiano polemicamente a Giorgio Bocca (non a un’autorità di sinistra come Claudio Pavone, per dire), intendendolo come depositario della Resistenza buona. Ed è un racconto senza professionalità esclusive, senza un pubblico specifico di professionisti e di dilettanti. Siamo tutti immersi nella storia, in modo attivo o passivo. Canali tematici sulla tv satellitare, un ambito televisivo come quello di Giovanni Minoli ("La storia siamo noi"), impeccabile nel ricostruire eventi politicamente rilevanti ma anche nel ripercorrere il costume italiano, nei santuari dell’intrattenimento, dove il cambiamento è diventato spettacolo e vissuto quotidiano. Oppure film politicamente urtanti, come quello di Michael Moore sull’11 settembre. E qui da noi Enrico Deaglio e Beppe Cremagnani, autori del fortunato "Quando c’era Silvio" uscito all’inizio del 2006, che a quanto si sa hanno completato il montaggio di un "docu-thriller", un film di storia "simultanea" girato da Ruben H. Oliva, che racconta la terribile notte elettorale del 10 aprile, illustrando il possibile grande broglio elettorale della destra: la tesi di Silvio Berlusconi rovesciata contro di lui. O invece ancora, su un piano popolare, la fiction televisiva che propone biografie una dietro l’altra: da Maria José a Edda Ciano, talora con effetti di buon successo popolare, e talvolta con buone prove storiografiche come per l’Alcide De Gasperi di Liliana Cavani, passando per le vite dei dei santi (Padre Pio da Pietrelcina) e dei papi (Roncalli, Wojtyla) fino all’ultimo episodio tv (Albino Luciani). Ma è chiaro che la storia diventa una miccia nel momento in cui viene assunta come manifesto politico. E sotto questa luce gli steccati fra la storiografia formalizzata e la storia informale diventano permeabili: tanto per dire, esistono almeno due versioni di Renzo De Felice, il biografo di Mussolini: la prima è quella convenzionale di uno storico controverso anche se tecnicamente ineccepibile, l’autore del rovesciamento di prospettiva storiografica sul fascismo, in quanto esploratore degli anni del consenso mussoliniano; l’altra è quella della "vulgata" defeliciana, la sua assunzione a icona della destra sdoganata, che lo trasforma in un totem e lo esibisce a riprova della plausibilità di un’operazione politica, quella dell’inserimento dell’ex Msi diventato Alleanza nazionale, nell’area della legittimazione democratica e poi del governo. A sua volta, aggiunge qualche tassello alla storia italiana la sempre più ricca produzione autobiografica dei grandi vecchi del Pci: vedi la "ragazza del secolo scorso" Rossana Rossanda, la testimonianza di Pietro Ingrao ("Volevo la luna"), l’autobiografia tutta o quasi politica di Giorgio Napolitano ("Dal Pci al socialismo europeo"). Negli ultimi anni si è sviluppato nei convegni un dibattito sul cosiddetto "uso pubblico della storia". È vero che in Italia non si è mai assistito a una polemica come quella dell’"Historikerstreit", la battaglia fra storici che nel 1986 vide gli studiosi tedeschi, da Joachim Fest a Andreas Hillgruber, da Klaus Hildebrand a Wolfgang Mommsen, dividersi aspramente sulle tesi di Ernst Nolte, il creatore del provocatorio paradigma secondo cui «Auschwitz era stato preceduto dall’Arcipelago Gulag», con «lo "sterminio di classe" dei bolscevichi» interpretato come premessa «logica e fattuale dello "sterminio di razza" dei nazionalsocialisti». Ma, come rilevò a suo tempo Paolo Pombeni, gli storici tedeschi sono considerati i costruttori della coscienza, della memoria e dell’identità nazionale, e la tesi dell’azione «asiatica» dei nazisti come risposta all’azione «asiatica» di Stalin, la presenza di un «nesso causale» fra crimini bolscevichi e crimini nazisti, sembrava fatta apposta per risvegliare l’emozione del pubblico. Eppure si può mettere a fuoco un particolare in apparenza minore, ma che oggi assume un rilievo particolare: Nolte pubblicò il suo provocatorio articolo, "Il passato che non vuole passare", sulla "Frankfurter Allgemeine", un quotidiano di qualità, non una rivista accademica; Jürgen Habermas rispose un mese dopo sulla "Zeit", anch’egli dunque fuori dal solco della discussione universitaria, accendendo i fuochi di una polemica mondiale. Sicché oggi non stupisce poi tanto che la nostra "guerra sulla storia" avvenga fuori dal cerchio della ricerca ufficiale. Gli storici come d’Orsi si irritano se circola una specie di storia-spettacolo che sembra cercare volutamente scandali e rovesciare verità, per distruggere miti, leggende, e anche luoghi apparentemente indiscussi, depositi di conoscenza convenzionale e mai contestata. Come il recente pamphlet di Piero Melograni "Le bugie della storia", che smonta alcuni capisaldi della tradizione storica (Marx non sapeva nulla del mondo del lavoro, la Belle Époque non era poi così bella, Hitler non voleva la guerra mondiale, Rosa Luxemburg non era comunista), con il naturale seguito di polemiche sulla verità o non verità della storia. Eppure il saggio di maggiore successo di d’Orsi, "La cultura a Torino tra le due guerre" (uscito con Einaudi nel 2000) fu il tipico caso di un libro accademico proiettato nel dibattito politico da un quotidiano, "Il Foglio" di Giuliano Ferrara, proprio perché demoliva l’idea della Torino antifascista tramandata da Bobbio e dalla Casa Einaudi; e si concludeva con una pagina di impressionante durezza a proposito del ventennio fascista, «età in cui lo "scrittore" – l’uomo di cultura, per dirla in altro modo – credette di poter rinunciare tranquillamente alla propria "dignità", non solo contribuendo per tal via al consolidamento del regime mussoliniano, ma anche gettando le basi per una collocazione servile (…) del proprio ruolo; abdicando così all’elemento essenziale che identifica l’intellettuale, ossia la capacità critica, e il dovere di testimoniarla». E allora, dove finisce il lavoro dello storico e dove comincia l’uso politico della storia? Nella sostanza sembrerebbe che anche la questione storiografica possa essere fatta risalire alla polverizzazione delle competenze determinata dal dilatarsi dell’industria culturale di massa. Oggi la storia potrebbe essere composta dal lavorìo degli studiosi che verificano documenti e tracce scritte, ma anche dalla mappatura di aree non formalizzate: blog, "urban legend" che circolano nel web, voci incontrollate di Wikipedia, mitologie fabbricate per ragioni tattiche o geopolitiche come la varietà di invenzioni sull’attacco alle Torri gemelle nel 2001. Vero e falso, verosimile e fantapolitico si intrecciano così come sono via via diventati più labili i confini tra approfondimento e divulgazione. È una "soap history"? Una variante della fiction televisiva? Che si tratti di una catastrofe scientifica o di un allargamento delle possibilità di conoscenza è un argomento aperto. Per certi aspetti, la storia diffusa, questa specie di Blob che dilaga in ogni settore della comunicazione, è un fenomeno speculare ai processi di mercato, all’esplodere della galassia comunicativa, al proliferare anche commerciale delle "fonti". Nel mondo delle identità frammentate, l’identità storica è il riflesso di un puzzle. Ma allora, come per la democrazia, peggiore dei sistemi possibili tranne tutti gli altri, anche questa storia anonima, diffusa, centrifugata nell’immaginario di massa come bene di consumo, potrebbe essere la peggiore storia possibile, ma anche l’unica a disposizione: quella con cui fare i conti, approfittando dell’infinita varietà di accessi a cui si presta. Qualcosa di non molto dissimile a una selvaggia democrazia della cultura. n
02/11/2006