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Qui finisce il sessantotto

20/09/2007

Non siamo mica in Francia, dove Nicolas Sarkozy ha fatto sapere: «Io sono l’anti Sessantotto», e via andare con l’ordine, la legalità, la pulizia, il rispetto, l’educazione, senza tanti fronzoli mondani e liberal. Eppure a Parigi, dopo le battaglie nel Quartiere latino, l’impulso del Maggio si era rapidamente spento sotto il pugno di ferro del generale De Gaulle. Qui siamo in Italia, dove il Sessantotto è durato politicamente dieci anni, e socialmente e culturalmente un’eternità. Ha permeato l’autunno caldo del 1969, le lotte della classe operaia che doveva conquistare il suo paradiso, le grandi avanzate della sinistra nel 1975 e nel 1976, il Settantasette bolognese con l’Anti-Edipo di Guattari che attaccava la «repressione», fino alla chiusura del sipario, reale e virtuale, simboleggiata dall’assassinio di Aldo Moro nel 1978. Ma soprattutto il pensiero sessantottesco e l’ideologia sessantottina si sono stese sull’antropologia italiana, impastandosi con l’idea stessa di sinistra e diventando il vero senso comune nazionale. Ma adesso ha cominciato a tirare un’aria diversa. Come se, dopo quarant’anni, lo spirito del tempo, che soffia dove e quando vuole, avesse deciso di chiudere i conti, chiudere la fase, chiudere la partita del Sessantotto. Sessantotto adieu, allora. Basta alzare il naso e si sente aria di restaurazione. Indizi, sintomi. Che cosa vorrebbe dire, altrimenti, la sortita del ministro Giuseppe Fioroni, che rimette al centro della scuola tabelline e sintassi? Per decenni ha avuto corso il principio supremo del sessantottismo, cioè il no al nozionismo. Subordinata: largo allo "spirito critico". Non ci vuole un’anima reazionaria per registrare i danni inferti dalla lunga ventata antinozionista, nel senso che l’intreccio di genericità, di sociologismi, di astrazioni, di politichese ideologizzante si è sedimentato nella cultura scolastica, ha trasformato i libri di testo, anche alle elementari, in una nuvola vaporosa di nulla centrifugato, braudelismi in versione pop, storia e microstoria sociale, "materiale e immaginario" mischiati alla meno peggio: per cui nessuno scolaro è più capace di recitare a memoria i sette re di Roma o citare l’episodio di Muzio Scevola che si brucia la mano, ma sa qualcosa di vago sulla "vita quotidiana delle donne nella Repubblica romana". Ridateci gli Orazi e i Curiazi, e pure «Romolo e Remolo», à la berlusconiènne. Ma il ritorno alle nozioni è la spia di un cambiamento d’epoca o è solo un postdatato velleitarismo di stagione? Prendiamo l’altro grande totem della cultura sessantottesca, ossia la battaglia antimeritocratica. Quarant’anni fa, battersi contro il merito come criterio di giudizio e di selezione era un’etichetta progressista, fondata sull’idea che nella società di classe i privilegi assegnati a priori dalla società capitalistica impedivano agli ultimi di competere con i primi. Somma ingiustizia, diceva una delle icone sessantottesche, don Lorenzo Milani, «fare parti uguali fra disuguali»: vale a dire che il merito era considerato soltanto lo specchio della disuguaglianza di classe. L’egualitarismo diventava quindi un altro principio inderogabile. Mentre oggi non è solo la Confindustria, con le parole del suo presidente Luca Cordero di Montezemolo all’assemblea generale, a proporre la meritocrazia come fattore progressista della società: anche l’ala più esplicitamente riformista del futuro Partito democratico, da Enrico Letta a Pier Luigi Bersani, interpreta il merito come uno strumento per infrangere le barriere di una società castale. Già, la casta: il bersaglio dell’ormai più che celebre libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, ma anche della piazza virtuale e reale di Beppe Grillo. Il fatto è che quarant’anni fa si proponeva di aggredire il privilegio con la lotta di classe, cioè con un’azione collettiva organizzata politicamente; mentre adesso di collettivo non c’è quasi più nulla. In fondo anche il Vaffa Day di Grillo assomiglia più a una somma di individui, all’esprimersi di una società molecolare, che non al lavoro "di massa" che agiva attraverso il sindacato, i partiti, i gruppi politicizzati. L’età presente sembra tornata alla realtà descritta dal teorico ottocentesco Gustave Le Bon, alla psicologia delle folle anziché alla coscienza delle masse. E quindi tutte le grandi opposizioni del Sessantotto, a partire dalla dicotomia destra/sinistra, risultano scalfite. Allora, sulla scia delle tesi dei filosofi francofortesi come Herbert Marcuse e Theodor W. Adorno, il processo dialettico vedeva da un lato il sistema del "dominio", cioè la complessità del tardo capitalismo (vulgo: "il sistema"), e dall’altro le classi alienate, espropriate materialmente e spiritualmente dal potere. Marcuse aveva creato addirittura il concetto della "desublimazione repressiva", ovvero la modalità con cui il sistema medesimo tollerava le trasgressioni, purché fossero ininfluenti sul funzionamento complessivo. Oggi invece la trasgressione, l’adorniano scarto ripetto alla norma, è diventato politicamente fastidioso. Se il Sessantotto era tutto un fiorire di slogan intellettuali contro la famiglia borghese, contro il matrimonio, contro il filesteo decoro famigliare, oggi si è assistito a uno slittamento di criteri inesorabile. La famiglia è tornata a essere un valore primario da spendere in politica, e non solo da parte di Pier Ferdinando Casini e di Silvio Berlusconi. Mentre quarant’anni fa, quando il privato era politico, la liberazione sessuale, che avrebbe trovato voce e presenza pubblica nel movimento femminista, aveva come premessa e conquista la libertà di contraccezione, oggi circola come motto il ritorno alla "natalità". La coppia, che allora veniva considerata una struttura storica da superare, magari con le comuni e con la creatività erotica, è tornata a essere considerata il nucleo vitale della società, una forma sociale storicamente immodificabile che riscuote il favore e l’ammirazione intellettuale dei boys di Giuliano Ferrara, commosso dalle iper-storie sentimentali di Annalena Benini sul "Foglio", strazi e gioie di coppie che si spezzano, si riuniscono, eccedono, infine si normalizzano. Quindi addio ai grandi destrutturatori, a Ronald Laing e David Cooper, con le loro teorie sull’antipsichiatria, l’io diviso e la disgregazione della famiglia, ai guru come Ivan Illich, che voleva «descolarizzare la società» e «distruggere la scuola». La grande triade su cui si era articolato il Sessantotto, Marx-Marcuse-Mao, secondo la tagliente ideologia teutonica di uno dei leader del Sessantotto tedesco, Rudy Dutschke, è finita in archivio (al massimo resiste Mao, come Che Guevara, in quanto immagine totale, celebrata anche nella rassegna che si apre a Parma il 21 settembre, intitolata "Mai dire Mao – Servire il pop"). Il marxismo-leninismo, che era la formula dogmaticamente indiscutibile, una concezione immacolata del verbo rivoluzionario, appartiene alle anticaglie: ma quali avanguardie, ma quale partito, la scena del mondo si stende fra la società atomizzata del capitalismo liquido e le esplosioni disordinate dello scontro di civiltà alla Huntington. Lo stesso atteggiamento di simpatia e sintonia con i movimenti terzomondisti, ispirato principalmente dal furibondo pamphlet anti-imperialista di Frantz Fanon, "I dannati della terra", è stato messo a durissima prova nel momento in cui gli ultimi del pianeta, gli abitanti delle favelas, i migranti, hanno cessato di essere una risorsa potenziale della rivoluzione globale e vengono percepiti come un problema della situazione amministrativa locale. Argomento che assume un peso politico fortissimo nel momento in cui la sicurezza, cioè il law and order, la tolleranza zero, viene impugnata a sinistra in una competizione non tanto subliminale con la destra. Singolare destino per una concezione culturale che aveva privilegiato l’insurrezione contro la stabilità, la protesta contro il governo, l’immaginazione contro il realismo, lo spontaneismo contro le istituzioni, nel segno del grido ritmato secondo cui "lo stato borghese si abbatte e non si cambia", e della battaglia contro l’"autoritarismo". E non serve a molto ricorrere al vecchio adagio secondo cui si nasce incendiari e si diventa pompieri. Piuttosto, non sarà insignificante notare che il vero vincitore filosofico in questo cambio d’epoca non è neppure la destra liberista, esplosa con il boom reaganiano e thatcheriano negli anni Ottanta, con l’edonismo individualista e la curva di Laffer, che avevano già fatto a pezzi le idee anticonsumiste; ma piuttosto il pensiero che ha per sommo interprete Joseph Ratzinger, con il suo repertorio basato sul binomio "fides et ratio". A fine luglio, Benedetto XVI aveva qualificato il Sessantotto come «una fase di crisi nella cultura in Occidente». Certamente, ha più titoli e strumenti il papa a censurare il «relativismo intellettuale e morale del Sessantotto», di quanti non ne abbia Sarkozy. La "fides" è in antitesi con la secolarizzazione innescata dal Sessantotto, la "ratio" è un antidoto all’irrazionalismo dell’"immaginazione al potere". Se ora la crisi apertasi quarant’anni fa si richiude, qui nei confini domestici ci saranno molti sospiri di sollievo: anche se non è detto che sia un gran vantaggio veder tramontare i vecchi sogni della rivoluzione e della rivolta, per ritrovarsi nel proliferare caotico, catodico e internettiano dell’antipolitica. n

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