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Reality Sanremo

02/03/2006

A dire che ogni anno il Festival è peggio dell’anno prima si fa la figura dei babbioni che rimpiangono il tempo andato. Però è vero, ogni anno è peggio. Per le altre edizioni, di stagione in stagione, si potevano rispolverare le categorie descrittive di cui si è abusato. Sanremo come specchio dell’Italia contemporanea, del suo costume, della sua società; oppure, al contrario: il Festival come un prodotto autoreferenziale, un acquario di freak che nuotano in una bolla, rappresentando solo se stessi (e "l’ideologia" del festival). Dopo di che le deplorazioni potevano riguardare il fatto che il palco del teatro Ariston, quest’anno allestito scenograficamente dal premio Oscar Dante Ferretti, non è più la vetrina della canzone italiana, come se davvero esistesse una cosa che si chiama "canzone italiana" da mettere in qualche vetrina; oppure più rigorosamente che i freak non fossero abbastanza freak, e ancora più precisamente i mostri non abbastanza mostri. Aria moscia. Vabbé che è l’edizione numero 56, un anno di transizione, né nozze d’oro né di diamante. Festival di legno, come certe quasi medaglie olimpiche. Manca il grande pigliatutto, il conduttore presentatore dittatore che sbanca l’audience, non c’è Fabio Fazio, non c’è Piero Chiambretti, non c’è Paolo Bonolis, e non c’è nemmeno come direttore artistico Tony "Anch’io ho degli amici criminali" Renis. C’è Giorgio Panariello, con un profumo televisivo e neocentrista di Ballandi-Ballandi. E ci sono Victoria Cabello, la iena che diventerà il «folletto disturbatore del Festival», e Ilary Blasi, quella che ha avuto il Pupino dal Pupone, che poverino si è rotto il perone e rischia i Mondiali di Germania: lacrime, applausi, tutti in piedi, ci manca solo l’inno di Mameli cantato dalla bambina. Di Panariello si sa quasi tutto, compreso il fatto che sfida la storia e la cronaca sostenendo che la signora Franchina Ciampi non si riferiva a lui quando parlò della «tv deficiente» (in proposito dà la colpa a una copertina de "L’espresso", evvài!), e si mostra «quasi offeso» quando qualcuno lo addita a simbolo della tv nazional-popolare più ovvia. Il sito del Festival (www.sanremo.rai.it) illustra un ricco elenco di autori, Eddi Berni, Riccardo Cassini, Claudio Fasulo, Pietro Galeotti, Giorgio Panariello, Carlo Pistarino e Claudio Sabelli Fioretti, ma non rinuncia a promettere che «Marta Cecchetto, Claudia Cedro, Vanessa Hessler e Francesca Lancini, quattro splendide modelle italiane, accompagneranno gli artisti, indossando le magiche creazioni dei più grandi couturiers del made in Italy». Col tipico effetto da mercato rionale "donne, mi voglio rovinare, se non vi bastano i cantanti ci metto anche un frullatore". Dopo di che si tratta di riempire cinque serate tv, e non sarà semplice. Perché è vero che quest’anno il Festival sta completando una parabola che prima lo portava ad assomigliare a un reality show, e talvolta ad anticiparne la logica (con la differenza che nei reality non si è mai suicidato nessuno, e quindi l’effetto verità di Sanremo è stato spesso assai più clamoroso, e anche la creazione di leggende urbane, come nel caso di Luigi Tenco, riesumato proprio in prossimità dell’edizione 2006); e che adesso invece lo porta all’identificazione completa con i moduli del reality, con un qualsiasi "Music Farm" dove non si riesumano i morti ma i morti di fama. Uno sguardo ai partecipanti infatti rende subito evidente che fra il Sanremo di quest’anno e un reality a sfondo musicale c’è poca differenza. Manca Francesco Baccini, è vero, ma c’è la gatta morettina Dolcenera, che nell’ultimo "Music Farm" gli piantò una storia di seduzione basata sul prevedibile schema "te la do anzi no". Con lui che non s’è mai capito se ci provava, ci stava o era semplicemente provato. Se è solo per questo mancano anche Iva Zanicchi e Mietta e Franco Simone e Fausto Leali o Loredana Bertè. Ma si sa che ciò che conta è lo spirito. E lo spirito del Sanremo 2006 è proprio quello del recupero di gente in disarmo, di semi-star logorate, di ex campioni d’incassi delusi dalla Siae. Ron, Alex Britti, Gianluca Grignani, Michele Zarrillo fra gli uomini. C’è quello che rifà il se stesso degli esordi, quando rifaceva il Battisti più battistiano, quell’altro che fa il clone di Venditti per l’area meridionale, uno che preme preme e non sfonda mai del tutto perché "cià ‘a faccia da burino". Volete una parata di cantanti donne da reality? C’è solo l’imbarazzo della scelta: Anna Oxa e Ivana Spagna, cioè la vecchia guardia, un epinicio generazionale alla Silicon Valley. Anna Tatangelo, allieva e protetta di Gigi D’Alessio, a riprova di una vocazione irriducibile alla subalternità (certificata dall’aver presentato in altra edizione una canzone autobiografica intitolata "Una ragazza di periferia", che ovviamente è diventato un must per tutte le coatte che inflazionano i programmi giovanilistici ed esibizionistici del pomeriggio, con Maria De Filippi o no). Sulla categoria dei "gruppi" bisognerebbe stendere un velo, ma bisogna fare un paio di eccezioni innanzitutto perché ce n’è uno piuttosto "glocal", che sarebbero i Figli di Scampia, uno di quei nomi che richiama classiche battute come quella di Fiorello quando annuncia al padre di voler fare il ballerino: «Ma non potresti fare scippi come tutti gli altri?». Costoro rischiano di far passare in secondo piano il debutto a Sanremo dei Nomadi, che giusto quarant’anni fa avevano esordito al Cantagiro con "Come potete giudicar" e nel frattempo hanno attraversato tutte le fasi di una carriera: il successo con "Dio è morto" e con le ballate di Francesco Guccini, la fase di stanca, l’ideologizzazione tardo-emiliana con storie di mitraglie e partigiani, la morte del leader Augusto Daolio, il ritorno sempre più convinto come band perpetua, amica di Cuba e di Fidel, dotata di un pubblico fedele ed entusiasta, politicamente più vicino a Rifondazione che ai Ds. Anzi, neanche Rifondazione, troppo trotzkismo, troppa sciccheria, i Nomadi sembrano l’immagine perfetta per i Comunisti italiani, il rock secondo Oliviero Diliberto. L’effetto reality dovrebbe essere esaltato da un regolamento supercompetitivo, con eliminazioni a raffica, che alla fine lascerà sul palco del sabato sera solo otto protagonisti, una specie di grande massacro dei poveri svippati. E così si chiude il cerchio, Sanremo diventa una sottomarca dell’"Isola dei famosi". Certo, per movimentare un po’ l’ambiente ci vorrebbe qualche scandalo, ma un’esperta del Festival come l’inviata della "Stampa" Marinella Venegoni assicura che per il momento niente, né scandali né polemiche, una noia piatta. Speriamo in Mario Venuti, uno spirito ironico che oscilla fra canzoncine sadomasobondage e cedimenti all’autoerotismo, e che ha la faccia perfetta per risultare antipatico al pubblico di Raiuno. Poi ci vorrebbe probabilmente qualche cosa di clamoroso politicamente, magari l’irruzione dei No Tav, come quella volta che arrivarono i metalmeccanici e Pippo Baudo salvò Sanremo parlamentando con la delegazione operaia. Quanto ai vip veri, si sa che Luca di Montezemolo, uomo di stile, ha declinato ogni invito. Ci vorrebbe qualcuno che faccia colpo, bisognerebbe non perdere il figlio segreto di Moana Pozzi, oppure l’ex ministro Roberto Calderoli. Finirà invece che il momento clou del Festival sarà l’esibizione di Povia, quello che l’anno scorso sbancò fuori concorso con i bambini che fanno oh, l’incubo del grande e sfiziosissimo conoscitore Stefano Pistolini, il quale sul "Foglio" non manca di esecrare l’inflazione scolastica di quella canzone così perfettamente ruffiana, con tutti i mocciosi e le maestre impegnati nell’epopea infantile del cagnolino. Povia stavolta è in gara con una canzone intitolata "Vorrei avere il becco": praticamente perfetta. Se infatti fra becchi e gabbiani Sanremo venisse contagiato dall’aviaria, allora sì il divertimento, allora sì i titoli sui giornali.

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