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Ritorno al futuro

10/06/2004

Casa bolognese di Romano Prodi. Si affacciano gli amici più fidati, si scrutano gli ultimi sondaggi. I discorsi sono dominati dall’impressione suscitata dalle vicende della Fiat, ma anche dalla sensazione che parti significative dell’establishment si stiano ricollocando. Segnali di fumo da Confindustria, Banca d’Italia, grande finanza. Cambio di tendenza possibile. Prove di riallineamento probabile. Può essere che le élite economiche anticipino il giudizio del corpo elettorale, esprimendo di fatto un pollice verso per Silvio Berlusconi. Intanto però tutti gli occhi sono puntati sulle elezioni europee del 12-13 giugno, che daranno il primo responso su come l’opinione pubblica ha reagito all’iniziativa unitaria lanciata da Prodi nel luglio scorso. Comincia di qui una conversazione che poi si svilupperà fino a comprendere i punti fondamentali della riflessione politica del leader dell’Ulivo. La lista unitaria è attesa a una prova impegnativa. Una sua affermazione cambierebbe il sistema politico italiano. Un insuccesso potrebbe riportare tutto al punto di partenza. «Dobbiamo uscire dall’idea che un punto percentuale in più o in meno cambi significativamente il nostro progetto. C’è un messaggio unico e coerente, che esce dagli incontri della lista Uniti nell’Ulivo, secondo cui siamo costruendo una coalizione che permarrà dopo il voto, con la prospettiva esplicita di candidarsi a governare il paese». Ma ammetterà che i numeri elettorali hanno un significato. «Il punto fondamentale è che noi non abbiamo realizzato un’alleanza elettorale, un cartello di partiti. Ci sono due argomenti che voglio sottolineare. Il primo: mi sono rifiutato seccamente di dare il mio nome alla lista. Come è stato detto, i nomi passano, l’Ulivo non passa. Il secondo: abbiamo scelto consapevolmente di giocare fuori casa, in un’elezione che si svolge con il sistema proporzionale. Abbiamo ragionato in controtendenza rispetto agli interessi "egoistici" dei partiti. Tutti dicevano che la formula proporzionale esalta lo schema "divisi si vince": ebbene, noi abbiamo rischiato. Non ci si assume questo rischio se non c’è progettualità». Lei ci crede. Qualcun altro è sembrato crederci meno. «So benissimo che si tratta di una prova generale, e come in tutte le prove generali si vedono i difetti, le manchevolezze. È un tuffo ad alto indice di difficoltà, carpiato, con due o tre avvitamenti, magari con giudici di gara non proprio amichevoli…». È per questo che ha deciso di impegnarsi direttamente nella campagna elettorale, suscitando gli attacchi del centro-destra? «Su questo punto voglio che non ci siano dubbi o incertezze. Io rivendico in pieno il mio diritto di lavorare politicamente. Lo hanno fatto in passato Delors, Santer e ancora prima Roy Jenkins. Rivendico il diritto di lavorare sui contenuti politici. Non mi sono candidato, così come non ho voluto che il simbolo della lista contenesse il mio nome. Ma la presidenza della Commissione europea, che implica obblighi di neutralità e imparzialità fra i paesi membri, non inibisce l’elaborazione di idee e riflessioni politiche, e la loro pratica sul campo». Ma il tuffo carpiato, la prova generale, a che cosa deve condurre? «L’obiettivo è quello della creazione di un settore, il più ampio possibile, di stabilità politica e di credibilità in chiave di governo. Non c’è nulla nel sistema politico italiano che abbia il potenziale di attrazione della lista unica. Nello stesso tempo, quando ho parlato di rischio, non mi riferivo soltanto al centro-sinistra. Se la lista unitaria dovesse andare sotto le attese, contemporaneamente a un cattivo risultato di Forza Italia, ci troveremmo di fronte a una situazione di virtuale pre-crisi di sistema». C’è chi lavora per uno scenario di disgregazione. Sono attivissimi quelli che "il Riformista" chiama i "neo-prop", i mestatori del ritorno al sistema proporzionale. «I nostalgici ci sono sempre stati e forse ci saranno sempre. Ma credo che il nostro progetto esprima anche un desiderio di semplificazione sentito dall’opinione pubblica, avvertito come una seria e buona razionalizzazione della politica». Ma al di là dei ragionamenti sul sistema politico, qual è il messaggio che la lista unitaria rivolge alla società italiana? Sempre il messaggio ulivista di quasi dieci anni fa? «Il messaggio politico del 1995-96 era un messaggio importante, in quanto esponeva la convergenza di ispirazioni culturali diverse: la tradizione cattolica riformista, laica, socialista. In quanto tale, il messaggio è ancora perfettamente proponibile all’Italia di oggi». Ammetterà tuttavia che nel frattempo il paese è cambiato. «Certo, ma la crisi italiana di oggi rende la lista unitaria ancora più credibile. C’è una crisi sociale che prima era sottotraccia, e ora è evidente. Il nostro compito, lo dico con una sintesi estrema, è di restituire la gioia di vivere al paese. Non si tratta di una formula. Dobbiamo fare tutto il possibile per uscire dal cerchio maligno della depressione. È necessario agire sulla politica economica e su una modalità di iniziativa in Europa che ci permetta di risalire la corrente. Recuperare un ruolo attivo e un atteggiamento di cooperazione che ci ricollochi nei principali organismi internazionali». Cosa vuole dire, che l’Italia è esclusa dal giro? «Guardo i numeri, e vedo che siamo in coda nei dati di crescita. Il bilancio pubblico è in tensione. Ma l’elemento più preoccupante è l’andamento negativo nel commercio estero: l’arretramento sui mercati mondiali rappresenta un rischio vero di arretramento del paese. Per questo c’è bisogno di stare in una grande alleanza, di contribuire alla ripresa di cooperazione e sinergia con gli altri paesi europei». Per la verità l’Italia sembra avere cercato in tutti i modi di separare le proprie sorti dal mainstream europeo. E non solo in politica estera, sposando l’unilateralismo americano; ma anche con la sostanziale adozione di politiche economiche fuori linea rispetto alla tradizione europea. «Non si è capito che ci trovavamo in un passaggio di fase: è ciò che volevo segnalare quando ho detto che il pensiero unico era finito, e che non bastava più gridare "mercato, mercato". Oggi emerge la necessità della coesione sociale, come fattore che può consentire performance migliori e più durature anche sul piano economico. Noi dobbiamo scegliere fra una società che include e una società che accetta e incorpora l’esclusione». È sempre il vecchio discorso sull’economia europea, il modello renano, l’economia sociale di mercato. «No, o meglio, non solo. Pensiamo alla sfida cinese. Di fronte all’emergere della Cina, dobbiamo capire che possiamo essere capaci di reagire solo se siamo una società che non si spacca, che trova le risorse e le energie per una risposta. Questo toglierebbe di mezzo anche la visione della Cina come di una minaccia. Una minaccia? È un dinamismo che tonifica l’economia mondiale, c’è un intero continente, l’Asia, che si mobilita, c’è ricchezza che si crea e che verrà distribuita… Dopo di che, è vero che i paesi si comportano diversamente, rispetto al mutare delle condizioni competitive, e offrono risposte diverse a seconda delle loro condizioni interne. Sotto questo profilo, è o non è essenziale il ruolo dell’Europa? È o non è essenziale che l’Italia riprenda un ruolo cooperativo nell’Unione europea?». Intanto però si sente invocare sempre e comunque la litania delle "riforme". Cioè privatizzazioni, liberalizzazioni, flessibilizzazioni, precarizzazioni. «Una ricetta che ormai è insufficiente, nel contesto dei mercati mondiali. È vero, ci sono ridisegni strutturali dello stato sociale che devono essere compiuti, ma sarebbe illusorio pensare di competere con i paesi emergenti semplicemente tagliando il welfare. Non siamo l’America, che ha sempre convissuto con una quota ingente di marginalità sociale: decine di milioni di persone escluse dall’assistenza sanitaria, lavoratori che entrano ed escono dal lavoro. Per funzionare, gli Stati Uniti necessitano di quello che una volta si chiamava "esercito industriale di riserva". Ci vuole una filosofia forte per fare funzionare un sistema del genere. E noi, in Europa, siamo cresciuti avendo dietro di noi un’altra filosofia. Nell’ambito dell’Europa continentale solo in Italia si pensa che sia praticabile una via americana». E quale sarebbe allora la via europea? «Scuola, ricerca. Più risorse alla scuola, e una partecipazione diretta al grande circuito e ai grandi progetti della ricerca. Poi serve una politica industriale che tenga conto dei mutamenti: andiamo infatti verso un sistema in cui le grandi imprese sono tendenzialmente europee, non nazionali. Lo si vede bene nei trasporti, nell’energia, nelle aerolinee, nel settore farmaceutico. Tutto ciò pone all’Italia problemi seri: vent’anni fa, eravamo un paese abbastanza grande e popoloso per consentirci un’ampia varietà di sistemi produttivi. Oggi, nell’orizzonte della globalizzazione, è necessario scegliere e concentrarsi su alcuni settori. Individuare la dinamica, investire, specializzarsi». E che resterà del sistema italiano delle piccole imprese? «Le piccole imprese resteranno, ma occorrerà aiutarle a stare sul mercato globale. Bisognerà metterle insieme, offrire una strumentazione che consenta attività comuni, dotarle di servizi accessibili a questo scopo. Ma in proposito occorre avere chiaro che non possiamo restare in un’economia domestica, o addirittura autarchica. Io assisto con preoccupazione e malessere a certi piccoli e grandi segnali regressivi, ad alcuni indizi cattivi, come nel caso dell’euro, con la gente che sulla scia della televisione, e non solo della televisione, riprende a fare i conti in lire…». Lei ha parlato della necessità di uno sforzo corale per uscire da una sorta di depressione. Ma non possiamo dimenticare che tutto il paese è sotto l’ombra maligna della guerra in Iraq, e questo genera angoscia, turbamento, non soltanto conflitto politico. «Sulla guerra rivendico una coerenza assoluta. Ero contrario all’intervento unilaterale in Iraq, perché la guerra non avrebbe risolto il problema del terrorismo, non avrebbe stabilizzato l’Iraq, e non ci avrebbe resi più sicuri. Il giorno della vittoria, quando mi chiesero se ero contento che fosse finita, risposi che sarebbe stato meglio che non fosse mai cominciata. Oggi sono convinto che ci vuole un cambiamento reale, e questo cambiamento reale significa ruolo dell’Onu e coinvolgimento dei paesi arabi. È così che si conduce la lotta comune contro il terrorismo, è così che si esprime anche la vicinanza, l’amicizia e la solidarietà agli Stati Uniti».

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