La storia del rock può essere letta come un processo fluviale ma lineare, che comincia più o meno ufficialmente con Bill Haley e "Rock Around the Clock", poco più di cinquant’anni fa, e si sviluppa fino a oggi, dopo avere attraversato il beat, il funk, il punk, la dance, l’hip hop, e qualsiasi forma musicale e spettacolare che non sia riconducibile a una tradizione specifica, e che appaia in qualche misura eversiva. Oppure si può interpretarla attraverso dimensioni intrecciate, storia di musicisti che hanno svolto la loro esperienza sul campo, nei "complessi", nei gruppi, nelle band, nelle session, nelle reunion. Gente che cita altra gente, musica che mima e cambia altra musica. Forse è vero che il programma, o il manifesto, del rock è impossibile da stendere. È talmente onnivoro, così flessibile il concetto di "rock", da risultare in fondo irrilevante a fini descrittivi. Per individuare le ascendenze bisognerebbe risalire alle parole di George Gershwin, che commentò la "Rapsodia in Blue" dicendo: «C’è dentro il nostro blues, il brio delle nostre città, il ritmo della vita americana, la pulsazione di ciò che è moderno». Ma in questo modo accetteremmo in primo luogo l’idea che il rock non è mai nato, in quanto è esistito da sempre, fin dai ritmi e dai suoni dell’eco culturale afroamericana; e secondariamente dovremmo prendere per buona l’idea che il rock è l’America: il che è vero, ma solo in parte. Perché non si può negare che nella pulsazione del rock ci sono le sistole e diastole del cuore americano, se è vero che basta ascoltare un capolavoro dei Pink Floyd, tanto per esemplificare "Wish You Were Here", per accorgersi che sotto una verniciatura onirica, dietro l’"acidità" delle parole c’è fortissimo l’impianto del blues, dissimulato ma capace di dare forma ai sogni e alle libertà poetiche estreme di quegli anni Settanta. Eppure non è tutto, e non è solo America. Se infatti si vuole provare a capire «se è rock o no» (come si chiedeva Lucio Battisti in una delle sue produzioni più solipsistiche), conviene procedere in via davvero enciclopedica. E l’occasione è offerta dalla "Enciclopedia del Rock" con "L’espresso" dalla prossima settimana (prima uscita al prezzo speciale di un euro in più), leggendo le biografie e seguendo i rimandi cedendo alla tentazione momentanea, alla suggestione di un rinvio, per vedere quali musicisti hanno suonato con chi, come si sono riorganizzati i gruppi, da quale cosa è nata un’altra cosa, da quale musica è nata un’altra musica. Mettere a frutto le informazioni su tutti i protagonisti e gli album dalle origini a oggi per registrare che nei vecchi Yardbirds, quelli di "For your Love", hanno suonato la chitarra solista tre virtuosi come Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page. Era l’Inghilterra ruggente dei metà Sessanta, e ciascuno si può divertire a inseguire le carriere di questi grandi chitarristi: "Slowhand" Clapton che continua a coltivare quarant’anni dopo il suo blues armonioso e tecnicamente perfetto, Beck che ha sfiorato i terreni strumentali dell’indicibile ma anche del pop, Page che è passato alla storia per avere innervato la verve già quasi metallica dei Led Zeppelin. Oppure si può ripercorrere la carriera dei Beatles, andare alla ricerca del modo in cui il Quartetto di Liverpool si è appropriato dei rocchettini giovanili dell’America più ludica, degli anni Cinquanta più divertenti e futili, impregnandola di scintillante British Style: «I should have known better with a girl like you…»: cose da college, da festa adolescenziale, chewing gum, hula hoop, drive in, però con il "touch" di Lennon & McCartney, pronto a trasformarsi nell’opera- mondo del "Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band", dopo avere attraversato l’inevitabile Penny Lane con i colori e i suoni dei pompieri, il ritratto della regina, il barbiere all’angolo, in quell’isola così dolcemente pre-thatcheriana, ma anche così innovativa ed eccitante. Sicché non risulta poi del tutto incongruo o inaspettato che tanto John Lennon quanto Paul McCartney si siano misurati con i classici del rock’n’roll, dato che alla fine si torna sempre alle radici. E se si ascolta l’ultima produzione dei Rolling Stones, viene da condividere il giudizio di qualche vecchio maestro del blues, secondo cui Jagger & Richards, dopo la carriera, le donne, la droga, la ricchezza, il jet set, alla fine di tutto «non hanno tradito» la vecchia lezione di Muddy Waters e più in là dei maestri semidimenticati del Delta del Mississippi. Perché davvero il rock è eclettico, e questo suo eclettismo consente di inglobare stili e modi, senza preclusione alcuna. Gli Zeppelin sono capaci di allestire ballate struggenti come "Stairway to Heaven", con quell’arpeggio che tutti hanno provato a fare sulle sei corde acustiche; i Beach Boys hanno provato a reinventare la forma-canzone nella ritmica di "Good Vibrations"; i Doors avevano tentato, grazie al talento prossemico di Jim Morrison, di occupare lo spazio teatrale del palcoscenico con una performance estetizzante e mortuaria; i Kraftwerk hanno prodotto un’avanguardia elettronica che sembra citare talvolta le atmosfere di Weimar, sfumandole nel camouflage della musica artificiale. È per questo che non si può dire qual è il destino del rock. Quando la scena musicale sembrava languire, è nato il "movimento" punk, con il suo slogan "no future", un nichilismo sarcastico vomitato contro l’Inghilterra borghese. In America la musica di "mainstream" si è fatta contaminare dal reggae giamaicano; è nata la tendenza hip hop, il rap è diventato una forma di rivoltosa espressione metropolitana, la parola del ghetto che diventa ritmo. Dopo la fine dei Nirvana e lo spegnersi del Seattle sound, gruppi come i Green Day, quelli di "American Idiot", hanno ripreso il vessillo del punk e lo hanno portato nei territori dell’emozione, una sorta di punk "compassionevole" che potrebbe addirittura piacere ai neocon. Gioco di contaminazioni, non è vero che il rock sia rimasto lo stesso dai tempi di Elvis Presley, e di quella musica che «piace ai giovani perché non piace ai loro vecchi». Ma oggi non possiamo immaginare "dove va" il rock. Ormai non è più un fiume, è un oceano. Ognuno deve trovare la sua rotta, cercando i segni, e le musiche, che si sono fissati nei cataloghi discografici come nel vissuto e nell’immaginario. Si può cominciare da qualsiasi punto, agli inizi o alla fine della storia. Alla fine si può condividere una frase di George Harrison: «Il rock non è una rivoluzione, è un’evoluzione». In altri tempi si sarebbe detto una rivoluzione permanente. Adesso sappiamo che è stata un’arte capace di mettersi continuamente a confronto con il pubblico, spesso con il mercato, talvolta con l’industria, con il mercato di massa. Nel momento in cui la musica non si ascolta più come una volta, in religioso silenzio, in poltrona, ma accompagna la vita quotidiana come un sottofondo, o come un concentrato di ascolto informatizzato nell’iPod, viene facile considerare tutta l’esperienza del rock come un universo unico, in cui si può entrare da qualsiasi apertura, e in cui si può, o si deve, viaggiare anche senza meta. Qui c’è il primo Dylan, che richiama i Byrds; qui ci sono gli Hollies, che avevano alla chitarra Graham Nash; ecco il Boss, che riprende l’America profonda dei "losers", i perdenti, la working class che non va in paradiso. Eccetera. Basta cominciare e non si smette più. Il rock è davvero un’enciclopedia.
04/01/2006
Da Bill Haley ai Green Day. Dalle radici blues al beat, al funk, al reggae. Cinquant'anni di musica da esplorare. Guidati dall'Enciclopedia de "L'espresso"