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Rock The End

12/08/2009
CULTURA
C'erano una volta la rivoluzione e la trasgressione. E c'erano le vite bruciate sul palco. Oggi invece la musica giovanile è estetica istituzionale. Fenomenologia di una restaurazione .E soprattutto della fine di un mito

come avviene il passaggio dalla rivoluzione alla restaurazione? Dal rock come mito al rock come convenzione? E poi dicono le transizioni: ma intanto bisognerebbe cercare di non rimanere a bocca spalancata quando l’"Osservatore Romano" beatifica Bruce Springsteen, dopo il suo ultimo potentissimo concerto romano (a Torino, altro trionfo da 45 mila paganti), definendolo musica allo stato puro, e non solo: l’organo del Vaticano esalta lo «spessore letterario dei testi delle sue canzoni e l’attenzione ai valori cattolici», facendone un’immagine di verità sociale, di "Deep America", di classi popolari in camicia a quadri che balzano nella storia, provenienti idealmente dalla Depressione e dal New Deal. D’altronde ci vorrebbe poco per qualificare il Boss come un poeta di corte, il cantore di Obama: oltretutto non ha cantato l’inno "We Shall Overcome» nelle famose "Seeger Sessions"? Lo riscatta l’energia, dicono i fan, la generosità sul palco, la forza di imbracciare una chitarra elettrica con la E-Street Band a quasi sessant’anni, e di tener su tre ore di musica, con un’esplosione di talento scenico che ancora scuote gli aficionados. Allora viene la tentazione di capire dov’è finita la grande eversione spontanea, il suono della musica "sudicia" che faceva inorridire Frank Sinatra e i crooner, la trasgressione cominciata con Bill Haley e "Rock Around the Clock", e proseguita con il vitalismo nero e bianco di Elvis Presley. Dov’è finito lo standard antico del rock, il "vivere e il morire veloce", che ha accomunato lo stile di Jimi Hendrix, con le sue chitarre bruciate sul palco, e la gestualità "bianca" di Jim Morrison? Rimane la memoria, una nostalgia di secondo grado, ricreata per esempio in forma di commedia come nel film su Woodstock di Ang Lee . È rassicurante e gentile, "Taking Woodstock", il film del regista di "La tigre e il dragone", inteso a dimostrare che una parentesi di "Peace and Love", trascorsa ad amoreggiare nel fango e tra la musica, con un’esibizione ingenua di treccione, barbe, baffi, nudità d’epoca, oggi può apparire come uno squarcio rivelatore di una storia: quando la guerra nel Vietnam era un incubo livido e quotidiano, e l’urlo americano e anti- americano della chitarra di Hendrix offriva davvero l’idea di lacerare un velo su un mondo di violenza. Di mezzo c’è effettivamente una lunga stagione senza scansioni storiche, in cui le mode e gli stili della musica si susseguono senza mai diventare un paradigma collettivo. Dopo il "progressive", con le sue lunghissime suite, dopo i flauti di Ian Anderson, dopo i manierismi di Emerson, Lake e Palmer, venne il tempo dell’insurrezione punk, tre accordi e "no future", insulti al pubblico, droga e grida tossiche. Ma erano rivolte settoriali. Se invece si guarda al modo in cui i protagonisti veri hanno elaborato il rock, si nota alla svelta che intorno agli anni Ottanta la musica è stata portata alla maniera e al barocco con il "grotesque" esibizionista dei Queen di Freddie Mercury, melodramma omosessuale a torace nudo, trasformato in gospel o in canto di vittoria ("We Are the Champions"), cioè l’esatto corrispondente di un altro clou del kitsch mondiale, "Vincerò" dei Tre tenori, con la "Turandot" e il principe Calaf monumentalizzati a slogan canoro sempre più usurato e volgare. Lo schema aveva funzionato, e funziona ancora, con Madonna: che non è una eroina del rock, ma una costruttrice di show, di immagini, di configurazioni. Con i suoi crocefissi latinoamericani, ipersessuali e lucidi di sudore. Oppure con la beatificazione "global" di Evita Perón, e oggi con il recupero, a cinquant’anni, dei ritmi "dance", Madonna non è più da tempo come la definì Mick Jagger: «Un bicchierino di talento in un oceano di ambizione». Madonna è il passaggio dal rock al look, un’impresa e un’imprenditrice, una cantante mediocre e una proiezione totale di immagini sullo schermo della globalizzazione. Tanto più che anche Jagger e i Rolling Stones, con i loro ricorrenti e un po’ infastiditi tour mondiali, rappresentano lo spettro rugoso di se stessi, e di quella collera non-politica, bensì generazionale e gratuita, la «nostra rabbia un po’ idiota», che pervadeva gli anni di "Satisfaction". Una possibile verità è che, privato del mito, il rock è sopravvissuto come successione prevedibile di eventi. Nell’ultimo concerto a San Siro, gli U2 hanno creato uno spettacolo di suoni planetari, fatto di campionature e di tecnologia. E gli ultimi 25 anni del pop e del rock sono costellati dai "Live Aid", per l’Africa e il Terzo mondo, cioè dalle manifestazioni di massa che, sotto gli auspici di Bob Geldof o Bono, portano su un palcoscenico immenso i divi sempre più invecchiati di mezzo secolo di musica. Che rifanno se stessi, gli stessi cori, le medesime canzoni passate in archivio, perché il pubblico vuole riconoscersi in ciò che conosce già, ossia nella propria storia e nel proprio vissuto: il mito, nel rock, è una formulazione psicologica minore, che fa incontrare vicende individuali altrettanto minori, trasferendole in una coralità autoriconoscibile. Ci sono anche altre storie, apparentemente più dimesse, come quella di Leonard Cohen, che a 75 anni va ancora in giro a cantare con la sua voce da basso la stessa meravigliosa tiritera. Tuttavia questo non è rock, e neanche mito. Cohen è quanto di più simile a un poeta si sia potuto incontrare nella musica degli ultimi quarant’anni (anche quando racconta il suo fugace rapporto con Janis Joplin fra le lenzuola del "Chelsea Hotel"). Il mito invece, altro che poesia e letteratura: accetta degradazioni dal basso, si lascia sporcare. Lo ha capito, in un modo stralunato, Bob Dylan, che a ogni tappa del "Neverending Tour" perde spettatori e stravolge la sua musica; e non è un caso che in Italia qualcosa di simile al mito si sia incarnato in Vasco Rossi, ovvero un eroe deliberatamente provinciale, «sbudellato» (come scrisse Pier Vittorio Tondelli»), e comunque fieramente disattento all’estetica. Viene da dire, allora, che la restaurazione rocchettara, con l’imprimatur dell’"Osservatore Romano", è il prezzo pagato a un peccato delle origini, quando la rivoluzione aveva l’obbligo di immergersi nel fango di Woodstock e della musica "nera", fitta di istintualità. Poi è venuto il tempo della convenzioni. E se si vuole del business. Del carrozzone mondiale. Il rock è diventato vecchio insieme con i suoi sacerdoti e i suoi adepti. Il mito non si sporca più. E quando una mitologia è troppo igienizzata, resta solo come fenomeno di consumo, o di revival, di fronte al quale, man mano che passano gli anni, risulta superflua l’essenza, cioè l’emozione. n

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