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Rossa come la vittoria

30/08/2007

Andatelo a dire agli operai della Ferrari che la Ferrari è un mito. Qui a Maranello, nella fabbrica più bella del mondo, dove le linee di montaggio sembrano quinte teatrali, e il montaggio una rappresentazione scenica, si lavora duramente sulla materia. Si prendono acciai, matasse di cavi elettrici, blocchi di alluminio, sellerie, componenti elettroniche, e nel giro di una giornata viene fuori una Ferrari. Gli operai (ma più che operai sono operatori, specialisti dell’assemblaggio sul confine in cui la meccanica sfiora l’arte) contemplano con aria critica ogni vettura, socchiudendo un occhio come per prendere la mira, e alla fine della giornata licenziano il capolavoro. Voilà. Non vogliono saperne di miti, leggende e robetta leggera del genere. Non siamo nella bellettristica dell’automobilismo. Qui il mito è fatto di materia, di sostanza, di pesantezza, di realtà. Andate a Modena nella casa museo di Enzo Ferrari, e anche il presidente della fondazione, il direttore di "Quattroruote" Mauro Tedeschini, vi racconterà ammiccando che qualcuno sostiene che nel cortile della vecchia abitazione e prima officina del Drake, in certi giorni di umidità padana, si sente ancora l’odore dell’olio industriale che ha intriso lo sterrato, quasi un secolo fa. Sarà vero, sarà falso, sarà boh. Tuttavia un prodotto in fondo prevedibile come un’automobile ha davvero il bisogno essenziale di un alone mitologico intorno a sé. Altrimenti per quale motivo un londinese della City, arricchitosi con i derivati, dovrebbe bonificare centinaia di migliaia di euro (veri, non virtuali o "subprime"), per portarsi a casa una granturismo del Cavallino rampante. Stesso discorso per l’emiro di qualche improbabile emirato vicino a Dubai, che ne avrà magari una collezione, in garage blindati vigilati forse da una schiatta di eunuchi ignari della fine dell’impero ottomano. Eppure, per intuire il mistero della Ferrari, bastava visitare, nella primavera scorsa, la mostra "Mitomacchina" al Mart di Rovereto, e contemplare la Ferrari Barchetta, disegnata da Pininfarina, tirata in pochissimi esemplari negli anni Cinquanta (in una data che non sta bene precisare, naturalmente, perché i miti non soggiacciono alla sofferente mediocrità umana del tempo, anche se doveva essere il 1957), per restare stecchiti di fronte a un capolavoro autentico. Non soltanto perché uno di quegli esemplari appartenne anche all’Avvocato Agnelli, certificatore di stile e massimo trendsetter dell’epoca, ma perché la bellezza di quella vettura bicolore, verde nella parte superiore e blu metallizzato nella carenatura bassa, il suo stile supremo, l’essenzialità sovrumana del design, la perfezione estetica rendevano la Barchetta un oggetto assoluto: e si capisce poi che finisca al MoMa, accanto ad altri capolavori artistici del Novecento, magari facendone sfigurare qualcuno lì vicino. Insomma si tratta di decidere se la magia della Ferrari nasce dalle corse e dalle avventure di piloti e motori oppure da una produzione industriale che rasenta l’assoluto meccanico ed estetico. Com’è noto, tutto nasce dalla follia cocciuta di Enzo Ferrari, che era pazzo due volte: perché si era messo in testa di costruire le auto più belle del mondo; e in secondo luogo perché c’è riuscito, come solo ai matti può accadere. E quindi anche oggi risulta un po’ difficile districare i due aspetti, sport motoristico e produzione commerciale. Nei primi anni Novanta, quando a Maranello arrivò Luca Cordero di Montezemolo, le Ferrari in pista prendevano un secondo e mezzo al giro; e le auto prodotte dal reparto industriale sembravano trattori: grande rumore, un volante manovrabile solo con sforzi erculei, l’antitesi hegeliana del comfort. Il ferrarista doveva soffrire. C’era un prezzo da pagare al mito. Montezemolo strillò: «Voglio il servosterzo!», e lo ottenne. Chiese: «Chi è che controlla la concorrenza?», e in fabbrica lo guardavano come si guarda un alieno: la Ferrari non ha concorrenti. Arrivò il servosterzo, il "customer care", insieme con tutte le astrattezze tecnologiche che oggi sono naturali. E soprattutto arrivò Michael Schumacher. E qui si vede il talento di un leader: perché per colmare il divario con le Renault e le MacLaren, un buon dirigente della Fiat avrebbe cercato di migliorare le monoposto della Formula Uno, impiegandoci magari vent’anni, un passettino alla volta, con grandi fatiche e scarse soddisfazioni. Oggi miglioriamo il carburatore, domani le candele, poi l’elettronica, e il carbonio, e i freni, e i cavalli, e le gomme… E invece "Luca" saltò qualche mediazione intellettuale e meccanica, assumendo il miglior pilota del mondo, proprio lui il grande Schumi. Lo pagò uno sproposito, ma i fatti dimostrarono che sapeva quel che faceva. Tuttavia quasi tutti si sono dimenticati che prima di rivincere il Mondiale di Formula Uno, Montezemolo ci ha messo un’eternità. Eppure, qui si vede il "touch", qui si vede la classe: per alcuni lunghissimi anni, Montezemolo è riuscito a trasformare ogni sconfitta nell’aspettativa di una vittoria. Ogni gran premio era una sofferenza. Ogni sofferenza diventava una speranza. Si era innescato un circuito positivo, che faceva sentire i suoi effetti benefici anche sul terreno commerciale. Così, quando arrivarono i successi, sembrarono perfettamente naturali, una derivazione fisiologica del mito, una filiazione della divinità ferrarista. Invece, quanta fatica, quanta dedizione, quanto "commitment". Perché l’egemonia ferrarista sulle piste mondiali nasceva certo dalla compattezza di "quella sporca dozzina" capeggiata da Jean Todt; ma anche dalle sperimentazioni continue del reparto industriale. Andate, andate a vedere a Maranello la galleria del vento disegnata da Renzo Piano, e resterete sbalorditi. Ma non dimenticate di entrare nella fabbrica più bella del mondo, dove alla temperatura costante di 23 gradi centigradi, senza che si senta il minimo odore di olio meccanico, con isole vegetali e arboree che rendono più naturale l’ambiente, fra operai o operatori che si muovono con classe innata, con l’eleganza antica e modernissima dei meccanici emiliani, emergono un paio di vetture al giorno (una virgola uno, per l’esattezza). E lì vicino, un robot di sofisticazione pazzesca infila una pallina nell’azoto liquido, a una temperatura vicina allo zero assoluto, per infilarla poi in un’apposita cavità del monoblocco: riprendendo la temperatura normale e quindi dilatandosi, lo sferoide si fissa nel futuro motore come nessuna saldatura potrebbe garantire. Ecco. Questo è il mito. Una faccenda di robe dure, metalliche, novecentesche, gestite da meccanismi e software del nuovo millennio. Una sintesi. O forse un esempio di che cosa potrebbe essere l’Italia, se tutta l’Italia fosse capace di assomigliare alla Ferrari. n

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