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ROSSO Guccini

23/11/2000

Interno bolognese, quartiere Cirenaica, via Paolo Fabbri naturalmente al 43. Una voce stentorea: «Nel fosco fin del secolo morente / nell’orizzonte cupo e desolato / già si alza l’alba mi nacciosamente / del dì fatato…». Francesco Guccini sorride soddisfatto della propria memoria mentre declama gli endecasillabi di un canto anarchico che potrebbe essere l’antesignano della "Locomotiva". I giorni e gli anni se ne sono andati, lasciando alle spalle i tempi eroici di "Folk Beat n. 1", i libri, i romanzi, i fumetti, "Radiofreccia", gli amici che non ci sono più come Bonvi, il disegnatore di "Sturmtruppen", Victor Sogliani, il bassista lungagnone dell’Equipe 84, e Augusto Daolio, il cantante dei Nomadi, l’Eric Burdon della Bassa; o che invece si ritrovano ancora sotto casa per i riti serali da Vito. Oggi "Culodritto", ovvero sua figlia Teresa, ha 21 anni ed è iscritta al Dams. La vecchia partner chitarristica, Deborah Cooperman, vive nel Veneto con il marito, hanno un negozio di articoli musicali, lei dirige un coro locale e ogni tanto rispolvera in pubblico il suo fingerpicking da prestigiatrice. La compagna giovane, Raffaella, che come lui ha studiato con l’italianista Ezio Raimondi, sta facendo un dottorato di ricerca su Gadda. Proprio Raimondi, dopo avere assistito a un concerto del suo vecchio allievo a Bologna, gli ha detto: «Guccini, mi piacciono le sue canzoni perché sono etica che si fa politica». Insomma, riconoscimenti, onori culturali, una cooptazione nell’intellighenzia, ora consacrata dalla collocazione nel catalogo Einaudi. Guccini, a sessant’anni può confessarlo: lei ci ha sempre marciato, con la fiaccola dell’anarchia e la giustizia proletaria, con quelle parole che incendiavano i palasport. «Li incendiano anche adesso, se è per questo. Selve di pugni alzati. Ma l’anima socialista e libertaria era autentica. Anche se il socialismo non veniva dalla famiglia: madre carpigiana e democristiana; padre liberale e montanaro quando i liberali erano i padroni, e lui un semplice impiegato alle Poste. Nel ’48 il voto di famiglia fu ovviamente alla Dc. L’unico rivoltoso vero, l’anticlericale classico, diffidato dalla polizia fascista, per attività sindacale durante la costruzione della diga di Pàvana, era il mio prozio, che ho fatto diventare il protagonista di una mia canzone, "Amerigo"». Vuol dire che lei non ha mai inseguito la rivoluzione? «Non sono mai stato un estremista, non è nella mia cultura. E neanche comunista, perché il Pci allora era il partito dell’Urss, figurarsi. Ho votato socialista a lungo, ma la matrice culturale più sentita è l’azionismo, i Rosselli, il socialismo liberale. Anche il Sessantotto l’ho percepito nell’aria, ma avevo già 28 anni, e nessuna voglia di estremismi». E adesso? «Semplice, adesso voto Ds. Con il fastidio di vedere quelli che ai tempi della contestazione mi criticavano perché non ero abbastanza rivoluzionario che ora prendono lo stipendio di Berlusconi e fanno le campagne per Forza Italia». Mentre lei insiste romanticamente con il Che. «Ma Guevara è un mito ormai fuori dalle appartenenze politiche. Le è mai capitato di sentire la pelle d’oca per un canto proletario? Si può essere conservatori e commuoversi sentendo una canzone operaia, e allo stesso modo emozionarsi per la storia del Che. Capita anche a gente che nei concerti alza il pugno chiuso e magari si scopre dopo che ha votato per Forza Italia». Irresistibile Guevara. Solo che lei racconta quella storia ai ragazzini che si affollano ai suoi concerti, e per i quali il Che è un’immagine su una maglietta. Molto postmoderno. «Le canzoni dicono delle cose, si fanno ricordare. Pensi che "Il vecchio e il bambino", una canzone dedicata all’olocausto nucleare, ora la insegnano a scuola, è finita nelle antologie. Roba da vergognarsi come ladri. Anche perché io non mi sono mai considerato un autore politico: le mie canzoni nascono dalla quotidianità». E dai miti: a partire dall’America. «In America ci sono stato la prima volta nel 1970, l’ultima l’anno scorso, e giuro che non ci torno più: proibizionismo sulle sigarette, sulla birra se guidi… L’America è stata un mito fortissimo anche se di terza mano: Steinbeck, Dos Passos, Caldwell, attraverso Vittorini e Pavese. Gli unici libri di autori italiani li leggevo alla biblioteca dei postelegrafonici di Pàvana. Ma l’innamoramento vero era venuto nell’autunno del ’44, quando erano arrivati gli americani in carne e ossa». Quando comincia invece l’innamoramento musicale? «Comincia con il jazz tradizionale, il dixieland, da adolescente. Poi viene il cool jazz, molto esclusivo. Ma a un certo punto arrivano quelli della musica nuova: i Platters con "Only you", ma soprattutto il rock, Bill Haley, Gene Vincent, Elvis Presley». E lei, come tutti, si mette a suonare. «A suonare e a comporre musica, prego. Opera prima, una fotocopia di "Only you". Poi capitava un amico che ti diceva: ho conosciuto uno che con la chitarra sa fare l’assolo di "Be bop alula". Da restare annichiliti, perché quell’assolo era un giudizio di Dio: ed eccoci in gruppo a battere le balere. Ci si fa un repertorio. Il mio è sterminato, da "Signorinella pallida" a "Rock around the clock"». Poi appare Dylan, e vi strega tutti. «In effetti il primo Dylan ha esercitato la seconda grande influenza sulla mia vita musicale. La prima era stata quella dei francesi: Brassens, Brel, "Ne me quitte pas" che fu un’esperienza sconvolgente. Allora si ascoltava molta musica, e si provava i tutti i modi a rifarla». Perché, adesso di musica non ne ascolta più? «Ma neanche per sogno». Se cito i Rem, gli U2, i Radiohead lei rimane indifferente? «Come un catatonico. Ascolto qualche amico, Vecchioni, De Gregori, e Vinicio Capossela, che a suo tempo ho aiutato a entrare nel giro. Ma soprattutto mi piace la roba argentina. Il tango, che è diventato una passione grazie al Flaco, alias Juan Carlos Biondini, il mio chitarrista. Se vuole, le espongo la mia teoria sulle analogie fra il lunfardo, la lingua del tango, e il dialetto modenese». Ma intanto mi faccia capire come passa le giornate, quando non è in giro per i suoi tre o quattro concerti al mese. «Leggo. Passo alla libreria Feltrinelli di piazza Ravegnana e saccheggio, o mi faccio saccheggiare, che è lo stesso. Gli ultimi libri comprati? Pansa, "Romanzo di un ingenuo", in cui trovo qualche storia che mi è vicina; poi Marta Boneschi, "Senso", l’ultimo Montalbán, il romanzo milanese di Gino e Michele». Vita da casalingo. «L’ideale per scrivere. No, non canzoni, per quelle c’è tempo, e adesso comunque non esiste neppure il progetto di un nuovo disco. Invece, per tenere viva la vecchia passione mi sono messo a tradurre in dialetto pavanese una commedia di Plauto, la "Casina", una storia di due schiavi che corteggiano la stessa ragazza. L’idea sarebbe di metterla in scena, perché è tutta un gioco degli equivoci, e viene bene, con quella lingua fossile che è il dialetto. Solo che non riesco a finire, perché siamo in chiusura con Loriano Macchiavelli, è il terzo romanzo scritto insieme, dopo "Macaronì" e "Un disco dei Platters"». Soliti amici, solito giro… «Aggiunga pure che non ho il cellulare e neanche la patente, se vuole farmi passare per reazionario. Ma non creda che la mia vita sia una lunga e lenta disillusione. Io mi sento combattivo, non sono per niente incline alla rinuncia. Cari amici, non vi attrae la politica di adesso? Vi fa schifo il centrosinistra? Mi dispiace, ma io gioco con le carte che sono sul tavolo. Se c’è Rutelli si vota Rutelli. Gli estremismi, i romanticismi politici, i rivoluzionarismi, quelli vanno bene qualche volta in una canzone». E il lunfardo? «Se sai il modenese con il lunfardo te la cavi. C’è una fratellanza linguistica. Il problema vero è che la musica argentina è tutta in levare, e ti fa venire il cervello sincopato, per noi che non siamo abituati, e suoniamo il tango in battere come il liscio. No, mi creda: in politica come in musica bisogna capire che i tempi possono cambiare».

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