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Santissima alleanza

09/09/2004

In pubblico negano tutti. Dissimulano, smentiscono. Sollevano cristianamente gli occhi al cielo, recitano giaculatorie che negano anche l’evidenza. Nessuno vuole rifare la Dc. Nessuno se lo sogna. Eppure, eppure. L’estate ha portato alcuni venticelli insidiosi, velenosi, appetitosi. Per qualcuno, irresistibili. Bastava essere a Trento, il 18 e 19 agosto, e partecipare alla kermesse per il cinquantenario della morte di Alcide De Gasperi, con annesso Premio De Gasperi, infilarsi nella villa di rappresentanza dei fratelli Lunelli (spumante Ferrari, acqua Surgiva, distillati di classe), per assistere a un gioco di mosse, avance, finte e controfinte nel migliore stile dc. Tutti presenti, da Romano Prodi a Pier Ferdinando Casini, a far da corona ai 160 chilogrammi del premiato, il super-Cdu Helmut Kohl. Tutti speranzosi di ricevere un’investitura, tutti preoccupati che qualcuno potesse apparire più diccÏ degli altri, più candidabile, più investito. Per esempio, quel Prodi, troppa attenzione da parte di Kohl, troppe manifestazioni di stima europeista. Quindi, corsa generale a riprendersi il podio degasperiano, Casini nella funzione istituzional-moderata, Cossiga nella versione del teppista che fa ammenda delle cattiverie precedenti e chiama Prodi a ricucire il filo fra dossettiani e cattolici liberali. No, non è la Dc. Ma, in una terra dove abbondano ancora gli austriacanti, è facile battezzarlo come il partito di De Gasperi. O il partito tedesco. Che non è ancora un progetto. Ma è già un’ipotesi. Il ragionamento è semplice: l’establishment cattolico non ha ancora finito di digerire Berlusconi. E quando l’avrà digerito non lo assimilerà. La bandana, il trapianto, il lifting e le imbarazzanti liturgie new age della convention per il decennale di Forza Italia sono state il sigillo sulla sua inadeguatezza come portavoce cattolico. Berlusconi può essere utilizzato, ma non degasperizzato. Lo ha detto anche Giulio Andreotti al Meeting di Rimini: Silvio è stato essenziale nel 1994 quando ha bloccato la sinistra, ma ricordiamoci che De Gasperi non si sarebbe mai messo un fazzoletto da pirata in testa. Dunque, la prima tentazione era stata quella di smontare il bipolarismo, visto che non piacevano gli schieramenti. Ma l’operazione risultava difficile. Quindi, meglio cambiare schema. Dov’è il punto critico nel sistema politico italiano? Il centrodestra, secondo gli strateghi del partito degasperiano, va quasi bene cosÏ com’è. Il fattore Berlusconi è un problema transitorio, soprattutto se si adottano i tempi lunghi cari a eminenti ecclesiastici come il presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini, abituato ai ritmi secolari della Chiesa. Alleanza nazionale è ormai sdoganata, vedi l’invito dell’Azione cattolica a Gianfranco Fini: insorgono i cattolici di sinistra, come don Leonardo Zega sulle colonne de’ La Stampaft, ricordando che il vicepremier è l’erede dei persecutori fascisti, ma un invito è un invito, il tema è anestetico (la funzione sociale dell’oratorio), e se c’è da trangugiare l’ex fascista Fini in vista di un piatto più goloso, l’Azione cattolica farà il piacere di mandare giù il boccone. Il problema investe piuttosto il centrosinistra. PerchÈ i cattolici che contano non hanno mai creduto nella funzione salvifica dell’Ulivo. Il cardinal Ruini ha sempre pensato che Prodi fosse la maschera cattolica da usare, vedi il 1996, per rendere presentabile l’alleanza con i postcomunisti; e il golpettino rosso dell?ottobre 1998 fu accolto quasi con soddisfazione perché rivelava la verità ruiniana, ossia che Prodi era un prestanome e dietro il suo volto pacioso si profilavano come volevasi dimostrare gli zigomi e i baffi di Massimo D?Alema. Ma la soluzione c’è. Ed è facile. Si chiama modello tedesco. Comporta una nuova razionalizzazione del sistema politico. Ma senza forzature traumatiche. La prima operazione da compiere consiste nel liquidare la leadership e il progetto di Prodi e di Arturo Parisi. Ulivo addio: anche se qualcuno aveva apprezzato il tentativo eroico degli ulivisti di sciogliere i residui comunisti dentro il partito democratico, sterilizzando una volta per tutte la pregiudiziale anticomunista, ora si sceglie una via più facile, più automatica, meno faticosa. Occorre semplicemente portare dall’altra parte, nel centrodestra, le componenti cattoliche e centriste non legate per la vita e l’eternità al progetto ulivista. Le diverse posizioni sono impersonate da facce riconoscibili. C’è Clemente Mastella, ci sono democristiani storici come Mino Martinazzoli e Ciriaco De Mita, eternamente insoddisfatti dell’ulivismo e delle sue ambiguità. A chi piace il partito degasperiano? A Ruini, naturalmente. Ma anche a quei cardinali di destra come il potentissimo segretario di Stato vaticano Angelo Sodano, che ha sempre fatto buon viso alla destra, in particolare a Fini e ad An, senza portare a casa molto. Fuori dai santuari ecclesiastici piace dentro la Banca d’Italia, dove il governatore non ha dimenticato le battaglie a coltello con Giulio Tremonti, ma nemmeno l’antipatia istintiva per il centrosinistra. Piace in alcuni settori della Confindustria, in cui il giudizio verso Berlusconi e il suo governo è feroce, ma il pensiero di un governo dell’Ulivo, ancora condizionato da Rifondazione comunista, Verdi, Comunisti italiani e dal vecchio correntone Ds, viene giudicato scoraggiante. Piace anche, naturalmente, a Casini e a Follini, a Tabacci, a molti democristiani dentro Forza Italia, a tutti coloro insomma che sono stati gli antesignani della creazione di un partito popolar-conservatore come la Cdu tedesca, e che nel frattempo guardano con favore all’idea montezemoliana di una moratoria sulla devolution. Non dispiace a tutti coloro che avvertono il peso e la stanchezza di un bipolarismo inteso come guerra permanente. Non dovrebbe dispiacere alla Cisl, che in diverse occasioni ha pagato un prezzo salato (la rottura con la Cgil, le ruggini dentro le fabbriche) per avere accettato il tavolo di discussione con il governo, e che quindi guarda con diffidenza sia a sinistra sia alla destra attuale No, non è la Dc. La Dc era un partito a vasto raggio, che conteneva destra e sinistra. Lo stesso De Gasperi, all’epoca della battaglia con il "partito romano" per stroncare la cosiddetta "operazione Sturzo" (l’alleanza con la destra monarchica e missina alle comunali di Roma nel 1952) riformulò significativamente la propria notissima definizione dell’identità politica democristiana: "La Dc è un partito con una linea di centrosinistra, con aperture a destra"ª. Fra i cattolici del centrosinistra la preoccupazione ha raggiunto il livello di guardia, al punto che la pax fra Azione cattolica e Cl al Meeting è stata vista come l’effetto di un lavoro di sfondo per favorire l’operazione neocentrista. Non soltanto perché si sa benissimo che l’ambiziosissima impalcatura dell’ulivismo si regge tutta sulla figura di Prodi. Ma anche perché il ritorno a una riedizione del bipartitismo imperfetto, con la stragrande maggioranza dei cattolici, il "partito di Dio", tutta da una parte, come ai tempi del duello fra Dc e Pci, implicherebbe una nuova frattura nel rapporto fra laici e cattolici. Si determinerebbe una impermeabilità delle culture. Un rischio catastrofico per i fautori di una definitiva pacificazione con la modernità. Ed è per questo che nella sinistra cattolica si tenta in tutti i modi di tenere aperto il fronte. Uno dei termometri sarà di nuovo l’incontro annuale di Camaldoli, organizzato dalla rivista "Il Regno" (10-12 settembre), che verrà aperto dal cardinale Achille Silvestrini, uno dei porporati che mantengono aperto un canale vaticano con l’Ulivo, e che vedrà una sfilata di intellettuali tutti orientati a interpretare i conflitti contemporanei strappandoli alla logica della guerra di civiltà e alle rigidità neoconservatrici, di destra dura. Senza nascondere del tutto che dietro questo orizzonte culturale c’è soprattutto un obiettivo vitale per il cattolicesimo non moderatista: quello di evitare un ruinoso tutti a casa. L’Espresso numero 36 del 09-09-2004 pagina 102 Piombo amore e fantasia Utopia e violenza. Radio libere e scontri di piazza. Un film ricostruisce la contestazione a Bologna. Dove si sgretolÚ il mito del socialismo all?italiana di Edmondo Berselli Trattasi di slogan inattuale, ?Lavorare con lentezzaft. Eh sÏ, storia degli anni Settanta, anni non solo di piombo. ?Gli anni della maturit? che non sapemmo avereª, disse pi? tardi Giuliano Amato. Anni dell?alternativa politica cercata prima attraverso il Pci, grande avanzata alle elezioni politiche del 1976: ma ovviamente la Dc non cede, e ?i due vincitorift prefigurano una specie di bipartitismo, la possibile modernizzazione politica dell?Italia post-sessantottesca, post-autunno caldo, post-divorzio, post-rivoluzione sessuale. E si tratta di un film, sempre ?Lavorare con lentezzaft, prodotto da Fandango e girato da Guido Chiesa (il regista che ha alle spalle un buon successo nel 2000 con ?Il partigiano Johnnyft), in concorso al Festival di Venezia. Siamo a Bologna, l?isola felice, almeno in apparenza, del comunismo pragmatico all?emiliana, servizi sociali e salda egemonia culturale, un sindaco accademicamente con i controfiocchi come Renato Zangheri, il recupero del centro storico, l?umanesimo rosso, la borghesia soddisfatta, il compromesso socialdemocratico voluto da Togliatti fra l?Emilia rossa e i ceti medi che funziona ancora mirabilmente tutto sotto controllo, compagni. I segnali di disagio sono altrove: a Roma, dove in febbraio Luciano Lama Ë stato spernacchiato all?universit? dagli autonomi, ?Lama non l?ama nessunoft, ?I Lama stanno in Tibetft. Comincia qui l?anno 1977. E succede politicamente un Settantasette. Radio Alice Ë un epicentro. Bologna la grassa, la dotta eccetera comincia a fibrillare. Il magnifico rettore Rizzoli chiama le forze dell?ordine per spegnere gli scontri davanti ad Anatomia fra il Movimento e studenti e gli ?squadristift (come dicono a sinistra) di Comunione e Liberazione. Un carabiniere ammazza Francesco Lorusso, 25 anni, militante di Lotta continua. In un solo momento, Bologna non Ë pi? la stessa, l?isola Ë invasa, il sistema di potere del Pci si incrina, scricchiola, sbanda. I blindati della polizia demoliscono anche l?immagine del socialismo che funziona. Per raccontare questa storia, insidiosa come tutte le storie generazionali, Guido Chiesa ha chiamato a collaborare alla sceneggiatura i Wu Ming, entit? definibile forse come ?intellettuale collettivoft, a cui si devono fra l?altro un paio di libri fortunati come ?Qft e ?54ft. Quelli di Wu Ming, per capirci, sono gente che se la tira abbastanza, e per ogni progetto o intuizione devono costruirci su una teoria; ma poi hanno avuto una buona idea, rintracciata dalle cronache d?allora: ?Proprio sui giornali d?epoca abbiamo trovato notizia di una misteriosa rapina col buco, che dai canali sotto le strade di Bologna doveva portare un commando di uomini-talpa a un passo dal pavimento del caveau della Cassa di Risparmio…ª. Quella della galleria Ë un?altra citt? sotterranea, simile metaforicamente a quella della Bologna underground. Le talpe scavano. Gli animali da scavo politico sono quelli dell?autonomia, di Radio Alice, di Francesco Berardi detto Bifo. Le talpe manovali del crimine sono un bolognese autentico e un ?meridionale massaft. Squalo e Pelo: il regista Chiesa li ha selezionati con ogni probabilit? per testimoniare anche fisicamente i due volti di una Bologna che si sta disintegrando politicamente e socialmente. Da una parte il proletario di quartiere, ludico, cazzeggiatore, non ancora adulto, fichissimo nella sua svagatezza petroniana, interpretato dall?esordiente Tommaso Ramenghi; dall?altra Marco Luisi, immigrato incazzato duro, che sembra venuto gi? da un film d?epoca tipo ?La classe operaia va in paradisoft. Reclutati, i due, da un impresario della mala, tale Marangon, criminale filosofo (interpretato da Valerio Binasco), con il compito di scavare il lunghissimo tunnel verso la sede della Carisbo in piazza Minghetti. La Bologna non ufficiale ma comunque politica, quella di Radio Alice, della polizia, della contestazione Ë affidata ai volti di Valerio Mastandrea, poliziotto incaricato di ascoltare professionalmente la voce della sovversione che corre via etere, e di Claudia Pandolfi, sottratta alle melensaggini di prima sera, nel ruolo dell?avvocata giovane e di sinistra che sta dalla parte dei rivoltosi. Secondo Wu Ming, fare un film sulla Bologna del biennio 1976-77 ?significava soprattutto questo: sperimentare se fosse possibile parlare di anni Settanta senza restare prigionieri dell?uno o dell?altro clichÈ. Rifiutarsi di credere che la complessit? di quel decennio potesse essere rappresentata solo da Bombolo e Mario Morettiª. Tuttavia un punto di vista di questo tipo Ë molto parziale, anzi, unilaterale. L?unilateralismo Ë dato dal prendere la prospettiva del ?movimentoft come l?unica praticabile. In realt?, la galassia movimentista era soltanto uno degli elementi in gioco: il Settantasette bolognese rappresenta una delle crisi settoriali che preludono alla grande crisi di sistema. Quando a Bologna, in settembre, viene organizzato il grande convegno sulla repressione, sull?onda di FÈlix Guattari e dell?Antiedipo, il dato di fondo Ë rappresentato dal fatto che una generazione ha dichiarato la propria sfiducia nel Partito comunista. CioË nell?alternativa politica al ?regimeft democristiano. Se non si crede nel meccanismo della democrazia ?borgheseft, non c?Ë altra strada se non l?insurrezione, la lotta di massa, l?esplosivit? collettiva contro le istituzioni del controllo politico-sociale, ?al limiteft anche l?illegalit? di massa o individuale e sotterranea. Oppure, come prospettano i Wu Ming, c?Ë la libert? d?invenzione formale, ?la forza- invenzione, i ?cento fiorift, le tinte acide delle serigrafie, le fanzine, il cut-up grafico e sonoro, il linguaggio destrutturato delle radio libere e dei circoli di proletariato giovanile (?Un risotto vi seppellir?ft), l?irrompere degli slang e degli accenti regionali dopo decenni di dizione Raiª. Dopo di che ci si puÚ anche chiedere: che cosa Ë restato? La Bologna di allora aveva tentato di neutralizzare la propria epopea negativa ricorrendo alle caratteristiche stereotipate di citt? tollerante. Ma in realt? lo scontro fra movimenti e istituzioni era destinato a rimanere insoluto e sterile perchÈ gli uni e le altre non credevano alla democrazia. Dopo ?Zangheri zangher? zangheriamo la citt?ft, l?autonomia restava all?interno di un circuito estetico, non di rado estetizzante, compiaciuto delle proprie formule, mentre dentro la roccaforte sbrecciata del socialismo ?Emilian Styleft ci si rendeva conto che nel bilancio fra l?egemonia politica e il cambiamento, fra la lotta e il governo, il partito si era seduto. D?altronde, come era possibile tenere insieme, nel clima di allora, i docenti democratici dell?Universit? di Bologna che firmavano appelli progressisti, Umberto Eco che preparava lo scherzo sublime di ?Il nome della rosaft, Dario Fo con il suo teatro militante, il Soccorso rosso che reclutava fiancheggiatori, nonchÈ Carlo Ginzburg e Vittorio Foa, Lotta continua e l?Autonomia, la guerriglia e la liberazione, rivoluzionari, dadaisti, nichilisti, indiani metrÚ. Mentre dall?altra parte c?era l?arco costituzionale, i partiti, Zangheri che diceva ?ci vuole il dialogo fra la citt? e gli studenti, escludendo i fautori della violenzaª. Questione di incomunicabilit?. Lavorare con lentezza era impossibile anche allora, perchÈ i movimenti avevano un bisogno matto di velocit?, di efficacia grafica, di creazione parolibera, mentre la politica Ë troppo lenta rispetto ai tempi nuovi. Per questo adesso tutti parlano di memoria: ?Memoria dei movimenti, memoria moltepliceª, secondo Wu Ming. ?Tutte le storie parlano di oggi. E di domaniª, dice Guido Chiesa, uno che pure preferisce ?l?ironia alla nostalgiaª. A proposito: l?espressione ?lavorare con lentezzaft viene da una canzone che ogni mattina apriva le trasmissioni di Radio Alice, un brano del pugliese Enzo Del Re, oltranzista della canzone politica di quegli anni, abituato a chiedere come compenso il minimo sindacale della paga di una giornata di lavoro di un metalmeccanico. Ma forse la canzone che meglio definisce quei tempi Ë di Rino Gaetano, ?Mio fratello Ë figlio unicoft, che in poche strofe fa ancora ricordare che le contraddizioni sono allora e sempre in seno al popolo.

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