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Se Fassino perde pezzi va a pezzi anche il Pd

01/03/2007

A mano a mano che ci si avvicina al congresso di aprile, il disagio nei Ds si fa più forte. Perché è vero che il processo che deve portare alla fusione diessina nel partito democratico ha tutto l’aspetto di un treno in corsa, che non si può arrestare e da cui è praticamente impossibile scendere. Ma il catalogo dei segnali di disagio e di sofferenza politica si arricchisce ogni giorno. Vecchi miglioristi come Emanuele Macaluso conducono una battaglia quotidiana nel tentativo di preservare un corredo genetico socialista. Giuseppe Caldarola (che si è autodefinito ironicamente «un vecchio arnese di destra») aderisce alla battaglia per preservare l’ancoraggio alla famiglia del socialismo. A Bologna, un dirigente solido e popolare come Mauro Zani ha cominciato una sua battaglia, accostandosi alle posizioni di Gavino Angius, perché l’approdo al partito democratico non sia un semplice fenomeno inerziale; e un’esponente della sinistra del partito, Katia Zanotti, ha parlato di un clima di intimidazione, se non proprio di "mobbing", da parte dei fassiniani verso chi coltiva dubbi sull’operazione "democratica" ed esita a firmare la mozione del segretario. Tutto questo mentre il leader della minoranza diessina, Fabio Mussi, ha cominciato la sua guerra congressuale, entrando nel vivo e presentando la seconda mozione, con un attacco durissimo al vertice del partito: «Noi oggi siamo qui a celebrare i successi di un segretario che ci ha portato al 17,5 per cento», ricordando che Occhetto «dovette fare le valigie, e anche in fretta, per avere ottenuto il 16,5». L’analisi di Mussi è radicale: i Ds sono diventati un partito marginale, senza più partecipazione autentica, un «partito degli eletti» che ha l’ossessione di restare figlio di un dio minore e perciò va in cerca di un destino imprecisato. Conclusione, secondo Mussi: non c’è spazio politico per il nuovo partito; l’alleanza con il centro dell’Unione, cioè con la Margherita, è importante, ma di fusioni e di abbandono della propria ragione sociale e politica non se ne deve parlare. La posizione degli aderenti alla seconda mozione è chiara, mentre non è affatto chiaro che cosa succederà al congresso. Perché se non ci saranno imprevisti la linea è tracciata, e dal binario non si esce. Toccherà quindi ai dissidenti, a Mussi e Salvi, insieme con tutto il partito degli scontenti, decidere che strada imboccare. Chinare il capo ed entrare nel partito democratico, cercando di mantenere in vita una corrente neosocialista? Oppure scegliere l’alternativa della scissione, con la prospettiva di costruire una complicata unità della sinistra con i Comunisti italiani e Rifondazione? Ma c’è anche un’altra possibilità, piuttosto inquietante in primo luogo per Fassino e D’Alema. Vale a dire che nei due mesi di qui al congresso tutte le insoddisfazioni, le diffidenze, le ostilità allo scioglimento dei Ds e alla confluenza del partito democratico si coagulino, raggiungendo un risultato numerico tale da mettere in crisi il progetto della segreteria. Improbabile? Certo, improbabile. Ma il partito democratico avrebbe avuto strada facile se l’azione di governo si fosse rivelata convincente, sorretta dal favore popolare. Mentre in questi ultimi mesi governo e maggioranza sono divenuti un contenitore di tensioni. Vicenza, l’Afghanistan, il disegno di legge sulle unioni di fatto. In queste condizioni, nessuno può escludere che il cammino possa diventare più accidentato del previsto. Anzi, con l’avvicinarsi alla scadenza congressuale, le posizioni diventeranno più nette. La sensazione che l’ultima transizione postcomunista possa essere l’abbandono di un’identità storica, un taglio delle radici, potrebbe dare al congresso quella carica emotiva che spesso si è manifestata negli appuntamenti più drammatici del partito (o ci siamo dimenticati le lacrime di Pietro Ingrao a Bologna, lo choc per la mancata elezione di Occhetto a Rimini, e la drammatica scissione di Rifondazione comunista?) Non si tratterà soltanto di registrare le dimensioni della vittoria di Fassino, dal momento che, come dice Caldarola, «con una forte vittoria della maggioranza Ds, le strade si divaricheranno inevitabilmente». Occorrerà osservare anche il risultato della mozione Mussi e l’andamento del dibattito congressuale. Perché è vero che, secondo lo slogan del sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, i Ds «devono essere disposti a perdere pezzi». Ma un partito che di pezzi ne perdesse troppi, e la nascita di un nuovo partito monco, sarebbero la negazione dell’obiettivo per cui il partito democratico era stato progettato.

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