Ci sono davvero due Italie, un’Italia politica che guarda a se stessa e una società che preme per innovazioni sostanziali? Forse è questo il dilemma del centrosinistra e del governo che esso esprime. A guardare gli atteggiamenti che emergono dalle indagini demoscopiche si ha la sensazione di attese frustrate. Anzi, sul piano dei criteri di fondo, dei principi, dei "valori" emerge un’opinione pubblica "postmaterialista", disponibile ad accelerare sensibilmente il cambiamento: sui temi dei comportamenti diffusi, come la regolazione delle unioni civili, l’eutanasia, il testamento biologico, la società italiana appare davvero pronta a scegliere un cambiamento profondo. A cui tuttavia si affiancano anche spinte sostanzialmente regressive, legate soprattutto al tema della sicurezza. Non è un caso, a questo proposito, che il primo incidente di percorso sia avvenuto con l’indulto. I sondaggisti avevano registrato un calo immediato del consenso verso il governo, fra i tre e i quattro punti di caduta, e non era servito a niente puntualizzare che il dispositivo di clemenza nasceva da una iniziativa parlamentare, approvata con un voto trasversale agli schieramenti. Pollice verso. Quindi non solo due Italie: più probabilmente c’è una miriade di Italie che l’Unione tenta ancora di raccogliere con gli strumenti tradizionali della politica: con compromessi fra Margherita e Ds, cercando di incanalare nel mainstream governativo le pulsioni libertarie, laiche, egualitarie, specialmente quelle della sinistra radicale. Ma la sfasatura ovviamente si manifesta anche sul terreno classico della politica economica, e in particolare sulla legge finanziaria: perché le prime mosse governative, dalla ripresa di iniziativa in politica estera sul Medio Oriente con l’operazione Libano, così come le misure di liberalizzazione del decreto Bersani, erano state accolte con favore (come si vede nel sondaggio pubblicato in queste pagine, il consenso sulle procedure di liberalizzazione è ancora ampio, anche se ha dovuto fronteggiare a fatica la reazione a catena delle categorie); ma la Finanziaria era attesa come il vero banco di prova del governo Prodi e della sua capacità riformatrice. E qui, alla fine di settembre, è successo il mezzo disastro. O il disastro intero. Il sintomo di una specie di incomunicabilità fra il governo di centrosinistra e l’elettorato. Una decina abbondante di punti di caduta nell’indice di gradimento. Mai vista, dicono gli esperti, una discesa così precipitosa. In pochi giorni, Romano Prodi e il suo governo infilavano una china ripidissima, e si ritrovavano in condizioni di impopolarità quasi analoghe a quelle di Silvio Berlusconi nella seconda parte della legislatura di centrodestra, allorché nel giugno 2005 toccò il suo minimo di consenso, con solo il 29 per cento di valutazioni favorevoli. A meno di tre mesi di distanza, la situazione non è migliorata. Sembra anzi che si sia sollevata un’ondata di risentimento verso il governo, che si manifesta ogni volta che se ne presenta l’occasione. I fischi a Guglielmo Epifani a Mirafiori. Le contestazioni al Motorshow contro lo stesso Prodi. La protesta dei ricercatori, ancora a Bologna, all’indirizzo di Pier Luigi Bersani. «I fischi all’indirizzo del segretario della Cgil sono stati largamente amplificati dal circuito dei media», sostiene uno dei migliori conoscitori della Torino industriale, lo storico Giuseppe Berta: «Tuttavia sembra che il sindacato e il governo di centrosinistra non siano in grado di capire che la base operaia, e non solo operaia, vuole certezze, non ipotesi che considera inquietanti. Tanto per dire, gli operai vogliono sapere quando potranno andare in pensione, e che fine farà il loro tfr». In altri termini, annunciare di continuo riforme su argomenti sensibili, lasciando nell’aria un clima di insicurezza, provoca disagio e ansia. Ma basta questo a spiegare il calo del consenso? La contestazione torinese di Epifani rappresenta davvero il segnale che è saltato il legame storico fra ceti popolari, rappresentanza degli interessi "di classe" e governo della sinistra? E più in generale, si può dire che il governo Prodi si trova di fronte a uno smottamento difficilmente colmabile in termini di gradimento pubblico, e cioè al segnale conclamato di una impossibilità di raccogliere consenso sul programma politico che ha varato? A prima vista i dubbi sembrano pochi. Secondo le indagini di Renato Mannheimer, il giudizio favorevole sull’operato dell’esecutivo non supera il 31 per cento del campione intervistato, «uno dei valori più bassi di consenso mai toccati dopo meno di un anno di governo». Come se ciò non bastasse, la diminuzione del gradimento «riguarda in particolare chi possiede titoli di studio più elevati, chi è impegnato in un’attività lavorativa, chi ha dai 35 ai 55 anni, vale a dire i segmenti centrali nella vita socioeconomica del Paese». Si potrebbe aggiungere probabilmente che l’identikit dell’italiano insoddisfatto ha una riscontrabile tendenza a sovrapporsi con una buona approssimazione al profilo dell’elettore di centrosinistra, e specialmente a quei settori di società che si aspettavano freschezza e originalità nelle soluzioni, e creatività nelle riforme. Sono quei ceti che si sono trovati di fronte una legge finanziaria assai voluminosa quanto di ardua decifrazione. Il premier Prodi e il suo ministro dell’economia, Tommaso Padoa-Schioppa, hanno sempre sostenuto che la severità e l’ampiezza della manovra sono funzionali al progetto di unire in una sola fase politica il risanamento dei conti pubblici e il rilancio dell’economia. Progetto condivisibile, se non fosse che i calcoli preventivi del governo non hanno evidentemente intercettato la crescita impetuosa delle entrate tributarie. Sono state quindi vistose le critiche all’impianto stesso della politica fiscale sottesa alla finanziaria. Il sindaco di Bologna Sergio Cofferati ha criticato aspramente e ripetutamente la fisionomia della manovra, soprattutto per la sua incapacità di identificare con ragionevolezza "sociologica" il profilo della ricchezza. Di qui a dire che l’azione del binomio di governo composto da Prodi e Padoa-Schioppa si rivolge a un paese inesistente non c’è che un passo. Certo hanno giocato sfavorevolmente alcuni fattori rilevanti: un risanamento del bilancio statale largamente giostrato sulle entrate, come ha rilevato il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi; una conferma della tendenza alla crescita della spesa pubblica (Tito Boeri); l’incessante mutazione in Parlamento dei provvedimenti parziali, che ha fatto perdere di vista gli obiettivi centrali della manovra; mentre non ha giovato alla popolarità del governo la sensazione che la finanziaria configuri un complesso di misure dal contenuto intrinsecamente "inflazionario", cioè tendente ad aumentare a cascata il peso fiscale sui cittadini (con effetti che saranno da valutare sul piano delle imposte comunali e regionali). Ma il dissenso montante contro il governo sembra condensarsi in gran parte in un clima generale di delusione: sensazione insidiosa, perché agli stati d’animo non si comanda. Alla fine, dal punto di vista essenzialmente politico, Prodi e il centrosinistra si presentano ai cittadini come un’esperienza che abbina in modo politicamente confuso aumento delle tasse e aumento controllato dei diritti. Cioè sacrifici di una qualche entità sul piano del reddito, uniti ad aperture fin troppo moderate sul terreno delle garanzie civili. Sarebbe questa una tipica mediazione di centrosinistra, se non fosse che questi due livelli non sono negoziabili o scambiabili. Sulle coppie di fatto o sulla bioetica la società italiana appare laica, secolarizzata, disponibile a misure in linea con la tendenza civile europea, tanto da apparire sensibilmente più avanzata rispetto ai partiti e indifferente ai compromessi architettati per non scontentare la Cei: in sostanza si aspetta riforme in questo senso, e comunque le considera un elemento fisiologico se non automatico nel cambiamento di mentalità e di comportamenti. Quindi il prezzo pagato in termini fiscali non viene percepito come congruo: non si coglie come modernizzante uno "scambio" alla pari fra diritti civili e redistribuzione forzosa. Ciò significa che il centrosinistra dà l’impressione di non avere molto da dare. L’offerta prudentissima di modernità nei diritti non giustifica nei cittadini l’esigenza di un volume fiscale che permane elevato e in certi casi si innalza. Anzi, di fronte al riaggiustamento dei conti, ogni categoria vede soltanto ciò che sembra danneggiarla e dunque reagisce di conseguenza, contribuendo alla sensazione di disorientamento e confusione. È il «paese impazzito» evocato da Prodi. Oppure, più probabilmente, l’effetto di un’azione farraginosa, che offre a ogni corporazione lo spunto per una protesta. Mentre i principali leader del centrosinistra, a cominciare da Piero Fassino e Massimo D’Alema auspicano o invocano la "fase due", cioè il rilancio dell’azione riformista, la domanda che aleggia sul governo di centrosinistra è una domanda pesante: riuscirà la compagine di Prodi a tornare in sintonia prima di tutto con i suoi sostenitori? Oppure il patrimonio di credibilità si è troppo assottigliato per recuperare credito nell’opinione pubblica? E occorrerà valutare se l’incertezza della maggioranza, visibile con un certo imbarazzo negli "stop and go" sui diritti civili, non costituisca un fardello troppo pesante. Perché questo vorrebbe dire che il governo e l’Unione perdono consenso in quanto hanno scelto la cautela e la mediazione dove l’opinione pubblica si aspettava chiarezza e incisività. Dopo cinque anni di berlusconismo, c’era l’occasione per cambiare rotta. Perdere una simile opportunità può implicare la durata; ma può anche significare smarrire un’anima.
21/12/2006