Il pasticcio Unipol è un simbolo di come il passato ipotechi il presente. Le coop rosse infatti sono una componente di quella vastissima manomorta organizzativa che costituiva il sistema associativo e di potere del Pci. Era un insieme di strutture che comprendeva la Cgil, le associazioni femminili, i gruppi giovanili e studenteschi, i consumatori riuniti, le Feste dell’Unità, le realtà sportive, cinematografiche, di intrattenimento. Si può dire che non esistesse sfera della vita civile che non fosse presidiata da una peculiare organizzazione del Pci. Si trattava di un autentico mondo a parte, che nella prima Repubblica rappresentava la particolarità più profonda del comunismo nazionale: quasi un’altra Italia, contrapposta a quella dei “padroni”, alla Dc, al potere codificato dalla conventio ad excludendum. Esclusi dal governo, i comunisti avevano creato un universo parallelo, dotato di una fortissima solidarietà interna. Era quella realtà che consentiva anche la spregiudicatezza dei comportamenti, dal diritto di esazione a percentuale sugli affari dei “capitalisti” con i paesi del blocco sovietico ai legami preferenziali fra coop e giunte comuniste. Ma questa sistematica continuità fra la politica e gli affari era a suo modo giustificata dall’esclusione del Pci dalla stanza dei bottoni. Le organizzazioni collaterali della Democrazia cristiana e dei partiti di governo potevano fare leva sui “loro” ministri o sui capi locali; il mondo comunista non poteva vivere soltanto ispirandosi a nobili e storiche ragioni di mutualità e di solidarietà. Via via che la cooperazione cresceva, dall’autodifesa “di massa” si passava alla tutela di interessi “di classe”, che poi alla fine sarebbero diventati interessi di parte senza troppe vernici ideologiche. Per la rete rossa e solidale fu naturalmente un terremoto l’Ottantanove, Bolognina compresa. Non esisteva più un mondo escluso, la democrazia dell’alternanza metteva in gioco tutti; e nella realtà del postcomunismo la compresenza di organizzazioni satelliti perdeva gran parte della propria ragion d’essere. Non c’era più un partito di massa tenuto lontano dal potere con tutti i suoi elettori e “soci”. E le coop più grandi, come ha spiegato ripetutamente Lanfranco Turci, si sono progressivamente affrancate dal controllo del partito, visto che dovevano fare i conti con il mercato, non solo con la mutualità. Quindi oggi non ha molto senso un movimento cooperativo legato ai Ds, né collaterale né consustanziale, dal momento che le grandi imprese della cooperazione seguono logiche industriali ed economiche, non politiche, e che la sinistra si è a sua volta articolata (si parla continuamente del legame preferenziale con i ds, dimenticando il ruolo nella cooperazione di altri pezzi residui del Pci, come Rifondazione comunista e i Comunisti italiani). In ogni caso, pensando ai Ds attuali, la Legacoop è un problema più che una risorsa. Vale la pena di citare un solo punto critico, e rivelatore: quando le grandi imprese coop sono in corsa per gli appalti sulle opere pubbliche, o se li sono già aggiudicati, la dirigenza Ds è davvero libera e credibile nelle posizioni che assume sulle infrastrutture? Oppure la solidarietà con la Legacoop è un valore in più rispetto ai desideri dell’opinione pubblica? Per dire, la Tav in Val di Susa è un bene o un male in sé, o il discorso cambia se ci sono coinvolte imprese cooperative? Occorre un salto verso la modernità, e ciò può avvenire con tre mosse collegate. In primo luogo una politica di riforme che agisca sulle regole, in modo che le coop operino liberamente sul mercato, dentro un chiaro sistema di concorrenza, senza né sostegni né sbarramenti impliciti. Poi occorre valutare se abbia senso o no la divisione da guerra fredda fra cooperative rosse e bianche (risposta: no, la guerra fredda è finita, e la fusione tra Legacoop e Confcooperative libererebbe la cooperazione dalla politica). E infine: se il problema dell’intreccio fra coop e Ds è un lascito della storia e va risolto anche dal lato politico, non c’è nessuna ricetta alternativa al partito democratico. Che non è una formula delle oligarchie o un’invenzione dei poteri forti, ma un modo per adeguare la politica all’Italia post-ideologica, uscendo se Dio vuole dal Novecento.
19/01/2006