Lontano da Roma, in periferia, nelle province, nelle giunte amministrative, nei Consigli comunali si ride con i denti verdi: «Cucù, l’Unione non c’è più». In Piemonte, dissidi teatrali sull’alta velocità. A Venezia, diessini che espellono diessini dopo il caso Casson-Cacciari. A Modena, pasticci margheritici sulla Fondazione della Cassa di Risparmio. Basso profilo, di solito. Ma nella capitale, un vecchio corsaro della politica come Marco Pannella, impegnato nella tessitura dell’accordo politico con lo Sdi di Enrico Boselli e con i socialisti di Bobo Craxi, lancia un monito: «L’obiettivo principale in questa fase politica consiste nel battere il centro-destra. Però…». Eccoci, alla questione centrale dell’Unione. Commenta infatti Pannella nei suoi interventi: «L’effetto delle primarie si è via via depotenziato. È rimasta forte l’onda di consenso che ha confermato la leadership di Romano Prodi; ma l’Unione è entrata in turbolenza». Succede. Per la verità succede sempre al centro-sinistra. Succede, secondo il rito prodiano più ortodosso, quando al disegno intelligente e politicamente creazionista della linea ulivista si oppone il darwinismo ottocentesco delle culture storiche residuali. Sui temi di fondo come il ritiro dall’Iraq o sul rapporto con la Chiesa. Ma succede anche su questioni di bassa cucina partitica, come è accaduto con la baruffa sul finanziamento elettorale della campagna di Prodi: cioè una vicenda minore che si è ampliata a dismisura con gli interventi pubblici del brasseur del Professore, l’ex cestista Angelo Rovati (presidente della fondazione Governareper), e le reazioni mutriose della Margherita e dei Ds, finché Prodi ha stretto le labbra e ha sibilato: «Di soldi e di corna si parla solo in famiglia». Intanto però la temperatura politica era diventata torrida, con il tesoriere diessino Ugo Sposetti, uomo di sperimentate capacità pragmatiche, stimato da lady Flavia Franzoni, che parlando di Rovati e del braccio destro prodiano Giulio Santagata era esploso: «Prodi dica ai suoi cani di smettere di abbaiare». A volte l’unico rimedio è la medicina omeopatica dell’ironia, e Prodi aveva dedicato un pomeriggio alla soluzione del problema. Che si era materializzata nell’ampio stand del CioccoShow di piazza Santo Stefano, a un passo dalla residenza bolognese del candidato premier, con l’acquisto e la spedizione ai due tesorieri Ds e Dl, Sposetti e Luigi Lusi, di due cani di cioccolata fondente in bella confezione bianca, altezza al garrese 35 centimetri, peso mezzo chilo. Biglietto affettuoso e diplomazia avviata, anche con il conforto di una conversazione a tu per tu con Piero Fassino sull’aereo per Le Mans in occasione del congresso del Psf (5 mila socialisti francesi pronti all’ovazione per il cattolico Prodi, che li aveva salutati come «camarades d’Europe»). Folklore? Fino a un certo punto. Perché la malastoria del finanziamento è il sintomo di un conflitto strisciante che investe tutto il centro-sinistra. Nella patria del Professore, Bologna, il sindaco Sergio Cofferati è impegnato in una campagna ultralegalitaria che sta provocando attriti vistosi a sinistra, con Rifondazione comunista e i Verdi, ma anche con la componente cattolica della Margherita e con i movimenti sociali. A Palermo, in vista delle elezioni regionali, c’è la contrapposizione fra il candidato di Francesco Rutelli, il rettore di Catania Ferdinando Latteri, e la candidata della società civile Rita Borsellino, che ha portato al diapason il contrasto fra i due maggiori partiti candidati a confluire nel partito democratico. Ma i veri punti caldi della coalizione sono di carattere marcatamente politico. Anche in questo momento il fattore di tensione è rappresentato dagli strappi di Arturo Parisi, anima dell’Ulivo. Con un’intervista al "Corriere della Sera" Parisi ha sostenuto che nella prospettiva del partito democratico i partiti attuali sono entità a termine. Sbagliato sorprendersi, per la verità, dal momento che Parisi, storico ispiratore politico-culturale di Prodi, «stratega sistemico» nella definizione di Santagata, teorico e unico vincitore reale della scommessa delle primarie, ha sempre guardato a un orizzonte "americano", un bipartitismo compiuto in cui le identità sono destinate a stemperarsi. Solo che ogni volta che Parisi parla i Ds insorgono. Evidentemente ha il dono fatato di toccare nervi scoperti. L’estate scorsa aveva risollevato la questione morale, a proposito dell’intreccio politico-economico sullo sfondo della scalata di Unipol alla Bnl, suscitando fitte di dolore nella Quercia. Sulla questione dei partiti "transeunti" o morituri è intervenuto con durezza Franco Marini, evocando il pericolo di «visioni plebiscitarie» che non si addicono del tutto alla modesta statura fisica del "Negus", che non ha nulla del capo carismatico. Quando poi il politologo sardo- bolognese ha letto «con incredulità» le dichiarazioni al "Corriere" del diessino Giuseppe Caldarola («E allora noi gli rispondiamo: no, devi morire tu»), si è lasciato andare nella risposta a una frase crudele per Caldarola e i Ds: «Capisco che la sua prima formazione militante possa averlo familiarizzato con la morte più di quanto abbia fatto con me la mia prima formazione militare». Per capire questo lessico di pretta "école parisienne" bisogna sapere che Parisi ha frequentato la scuola militare della Nunziatella, ma soprattutto che non è mai stato comunista, e quindi complice dei misfatti del socialismo reale. Ci vuole poco a capire che questa non è normale dialettica fra correnti del futuro partito unico. Sono segnali del persistere di una diversità ontologica fra catto-ulivisti e diessini, fra riformisti da un lato e socialisti dall’altro, che periodicamente affiora con ruvidezza. Fino a pochi mesi fa si pensava che le difficoltà, per Prodi, sarebbero sorte nel rapporto di medio periodo con Rifondazione comunista. Ma per la verità Fausto Bertinotti sembra avere accettato integralmente, dopo l’esito per lui non straordinario delle primarie, la logica dell’alleanza larga e l’imperativo essenziale di sconfiggere la Casa delle libertà. Primum vincere. Oggi invece, in seguito alla quasi approvazione della caotica legge elettorale varata unilateralmente dal centro-destra, le contraddizioni sono in seno al popolo, ossia dentro l’Unione. E nonostante il precetto del presidente Mao, la diagnosi di una grande confusione sotto il cielo non è affatto la riprova di una situazione eccellente. A guardare i dati dei sondaggi, sostanzialmente omogenei per tutti gli istituti demoscopici, la condizione del centro-sinistra sembrerebbe rassicurante, con un vantaggio che nemmeno la trappola della legge elettorale per il Senato minaccia di scalfire. Ma ci sono almeno due aspetti da valutare, che generano inquietudine. Per un verso, la quota ancora molto alta di indecisi (un quarto del totale), che fa dire al circuito prodiano: «Non dimentichiamo che Angela Merkel ha vinto i sondaggi, con un 30 per cento di incerti, e ha quasi perso le elezioni con il voto vero». E in secondo luogo un dato, segnalato da Roberto Weber dell’Swg, secondo il quale «il consenso dell’Unione è stabile, ma c’è ancora un "quadrante" della società italiana potenzialmente mobilitabile, rappresentato dal mondo cattolico». Questa rilevazione chiarisce probabilmente il forcing di destra sulle posizioni della Chiesa, con le iniziative antiabortiste di Francesco Storace, così come spiega l’irritazione nell’ambiente di Prodi suscitata dalle forzature zapateriste di Boselli contro il Concordato, proprio mentre il Professore stava cercando una ricucitura con il cardinale Ruini. A questo proposito, viene attribuita a un Prodi inferocito una battuta: «Nei dieci Comandamenti non ce n’è uno che imponga di essere stupidi». Occorre capire se è questione di stupidità, oppure una questione di natura (secondo l’apologo, lo scorpione punge la rana in mezzo al fiume anche se ciò provoca la morte di entrambi: «È la mia natura»). La natura del centro-sinistra è composita: chissà se di qui alle elezioni l’Unione sarà capace di fare tacere il proprio Dna così meticcio, così naturalmente autolesionista.
25/11/2005