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Io, il pompiere Chicco

18/01/2001

Si potrebbe cominciare così: «Chicco Testa, quanto ha contato la politica nella sua nomina all’Enel?». Ma lui schiva il colpo, come avrebbe fatto il suo bisnonno garibaldino, fa qualcosa a metà fra un tic e un sogghigno e ribatte: «Vuol dire se mi sento un lottizzato?». Benissimo, carte scoperte. Quarantotto anni, bergamasco puro «senza nessun parente sotto il Serio», famiglia cattolica piccolo borghese, scuole dai salesiani che lo sbattono fuori all’ultimo anno del liceo perché sessantotteggiava. Poi, laurea in filosofia alla Statale di Milano (tesi su Marx e la teoria della produzione, relatore il giovane Salvatore Veca, allievo di Enzo Paci). Un po’ di Movimento studentesco, nel ’72 l’iscrizione al Pci: lavoro politico nella sezione Carlo Marx di Porta Romana, dove c’era anche Giò Pomodoro, e nel giro Eva Cantarella, Guido Martinotti, il piacentinista Michele Salvati, la movimentista Bianca Beccalli. Quindi l’Arci, Legambiente, la politica nel Pci. Mettiamola così: che cosa c’entra uno con questo curriculum con un colosso industriale come l’Enel? «Alle spalle della mia carriera c’è una storia, che ha il suo centro nella Legambiente. È vero che ho sempre fatto quattro cose alla volta, l’insegnante, l’organizzatore culturale, il promoter di concerti, il segretario di sezione. Ma Legambiente è stata una scuola di sprovincializzazione. Il movimento verde cresceva in Europa e negli Stati Uniti, si creava il contatto dell’ambientalismo con la realtà e i temi delle società industriali avanzate. Barry Commoner, il primo Rifkin, le premesse dei discorsi successivi sullo sviluppo sostenibile». Siamo ancora lontanissimi dall’Enel. «Ero andato a Roma con altri milanesi per aprire la strada a Marco Fumagalli, che aveva battuto Walter Vitali, allora ingraiano, nella corsa per la Fgci del dopo D’Alema. Mi occupavo di politiche culturali con Lorenzo Sacconi. E cominciavo ad annoiarmi. Si lavorava con i disoccupati e i senzacasa, ma il piacere era nel fare le tre di notte in trattoria a discutere di letteratura e cinema. A quel punto, Enrico Menduni, che era diventato presidente dell’Arci e che stava lavorando per sganciarsi dal collateralismo con il Pci, mi invita a lavorare con il suo gruppo. Si fonda quella che allora si chiamava Lega per l’ambiente: fra i primi ci sono Laura Conti e Giovanni Berlinguer». Finora si capisce che si è trattato di un apprendistato lungo. «Cominciano ad arrivare Ermete Realacci, bravissimo studente di fisica fermatosi a due esami dalla laurea, Scalia, Mattioli… Un crogiuolo: a quei tempi c’è anche uno della Gialappa’s. Poi la Melandri, Paolo Gentiloni…». Finalmente, è l’embrione del network Rutelli. «Lo chiami pure così. Passa il tempo, faccio la mia onesta carriera politica. Era stato Occhetto, vicesegretario di Natta, a convincermi a candidarmi per la Camera. Seguo tutta la transizione dal Pci al Pds, con relativi drammi, come quando al congresso di Rimini Occhetto non viene eletto in prima battuta e mi rimane il rimorso di non avere votato per lui perché ero corso ad assistere alla nascita di mio figlio. E quando nel 1993 Rutelli decide di correre da sindaco contro Fini, mi dice: "Se vinco, fai il presidente dell’Acea?". Mi conceda che è stata una buona scelta». Fuori le prove. «In due anni e mezzo, con Linda Lanzillotta, abbiamo fatto metà del lavoro di privatizzazione che poi è stato concluso da Paolo Cuccia. L’azienda era un ricettacolo di clientelismi e faceva zero utili da 20 anni. Il primo anno ha portato in casa 70 miliardi, quello successivo 150. E soprattutto è immediatamente diventata un modello per la privatizzazione delle municipalizzate». Ma Rutelli che ne sapeva delle sue eventuali doti di manager? «Con Francesco era nata una blanda amicizia, risalente a quando lui era capogruppo dei Verdi in comune, che si è via via rafforzata. Giochiamo a tennis prima di ogni elezione perché abbiamo deciso che porta fortuna. Io avevo avuto l’esperienza del governo ombra del Pci di Occhetto, con Visco, Bassanini, Napolitano, Cavazzuti fra gli altri». Già, ministro ombra di Occhetto per i lavori pubblici e l’ambiente. Un’esperienza mai decollata. «Ero un occhettiano acceso, e ci credevo, nel governo ombra. Quindi mi ci sono impegnato. Avevo fatto la campagna elettorale nelle Marche, un bel bagno nella realtà economica della cosiddetta Terza Italia. Ero in contatto con Giorgio Fuà e la sua scuola all’Istao, avevo conosciuto gli industriali marchigiani, Berloni, Della Valle, Guzzini, Merloni». È sufficiente frequentare gli industriali per imparare il mestiere? «Sono uno che impara alla svelta. Ascolto e faccio domande. Se non capisco me lo faccio spiegare di nuovo. Con l’esperienza dell’Acea, un’azienda da 1200 miliardi di fatturato, mi ero fatto le ossa sul campo. Molto meglio di un master in economia aziendale». Sicché con il governo Prodi la chiamano e le dicono: caro Testa, adesso dovresti fare il presidente dell’Enel. «Più o meno. Avevano fatto l’errore del "quaeta non movere", si erano incartati su qualche nomina come quella di Ernesto Pascale confermato alla Stet, e c’era in giro voglia di innovazione». Boiardi sì, purché siano i nostri. «Boiardi, boiardi… Ho avuto la fortuna di avere una triade di riferimento di grandi qualità. Prodi, Bersani e Ciampi, che pure avrebbe potuto guardarmi con diffidenza, dato che per l’Enel gli attribuivano come candidato un tecnico d’esperienza, Umberto Colombo. L’obiettivo era chiaro, quello della privatizzazione; ma c’è stata anche una sintonia umana eccezionale. Prodi era capace di telefonare a mezzanotte per chiedere: "Chicco, ma quel termocombustore, mi sai dire che rendimento ha?"». Lei naturalmente sapeva che cos’è un termocombustore. «L’ho imparato subito. All’Enel c’è una struttura dirigenziale con una cultura ingegneristica, molto formale, cresciuta in una logica rispettosa del servizio pubblico. Un buon ambiente, molto disponibile». Ma lei che cosa rappresentava all’Enel, il commissario politico di Franco Tatò? «Neanche per sogno. I rapporti sono stati chiari da subito. Anzi, a distanza di tempo gli ho detto: "All’inizio pensavo che io sarei stato l’incendiario e tu il pompiere. Ho l’impressione che i ruoli alla fine si siano rovesciati"». Perché, Tatò sarebbe un incendiario? «Un manager con la nevrosi del proprio lavoro, una riflessione continua sugli obiettivi e sui metodi, una tensione infernale». Capito: lui faceva il lavoro duro, e lei la rappresentanza. «Capito un accidente. Un lavoro durissimo per tutti. Perché non bisogna dimenticare che l’Enel in tre anni ha portato nelle casse dello Stato oltre 40 mila miliardi. Trenta con la tranche di privatizzazione, e il resto con i dividendi. Se si vuole giudicare dai risultati, questi sono i risultati». Quindi una situazione idilliaca dentro e fuori. Ma Prodi lo liquidano piuttosto alla svelta, nel 1998. «Io rimpiango i tempi di Prodi, per la qualità politica del suo governo e per la novità e il significato dell’Ulivo». Vuol dire che invece, con D’Alema, le cose sono andate peggio? Che non le telefonava la notte per sapere il rendimento dei termocombustori? «Conoscevo D’Alema fin dai tempi in cui ero nella Fgci, con lui segretario. D’Alema era più distante. Con Amato il rapporto è stato più facile, anche perché c’era una frequentazione da vacanze, lui ad Ansedonia, io con una casa in campagna vicino a Capalbio». Ecco s’avanza il Chicco Festa, come la chiamavano. «Battuta straziante, inventata da Maria Laura Rodotà. Che devo dire? Non sono un monaco. Certo, se al Goa c’è un bel gruppo, ci si va. E se c’è il concerto di Santana, ci vado e scrivo pure la recensione per il "Corriere"». Così Berlusconi le può dare del fanigottun. La scadenza del suo mandato è il 2002: che succede se il Cavaliere va a Palazzo Chigi? «L’Enel deve completare la privatizzazione, e quindi occorre che mercati e investitori non vengano scoraggiati da uno spoil system selvaggio. Berlusconi dev’essere consapevole che la società è quotata in Borsa, e che i mercati guardano con diffidenza a una politica che comanda sulle aziende, che impone logiche extraindustriali». Ma se il Cavaliere proprio non ne vorrà sapere di un ex comunista all’Enel? «Già, potrebbe insospetirsi per il potere dei soviet più l’elettrificazione. Niente programmi. Ma forse, più che verso la politica, a questo punto l’attrazione più forte per me è un ruolo nell’industria privata».

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