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Serve un tiro mancino

08/01/2009

Probabilmente è vero che per la sinistra l’imperativo è "ripartire da Obama". Ma si tratta di capire quale Obama. Perché è vero che il presidente eletto è un simbolo, anche emozionante, dell’apertura multiculturale, e la dimostrazione della infinita capacità innovativa di un’intera società. Ma oggi la sinistra non può limitarsi ad agitare le passioni. Ossia la sfera dei diritti, l’inclusività, la tolleranza, la laicità, il rispetto per le culture altre. Siamo davanti al vecchio ma infallibile discorso di Albert Hirschman, il più strenuo ideologo novecentesco del possibilismo riformista: c’è un tempo per le passioni e un tempo per gli interessi. Talvolta le due dimensioni dell’agire politico si intersecano, talora l’una prende il sopravvento sull’altra. Adesso si tratta in primo luogo di mettere a fuoco gli interessi, ossia cercare le ragioni profonde della crisi economica che il mondo comincia con grandissima fatica a fronteggiare, per creare i fondamenti di una risposta politica. A quel punto verrà il tempo delle passioni. Intanto, occorre far sapere che la destra non ha argomenti. Naviga a vista, investita dalle ondate di burrasca che ha creato. È il "pensiero unico" che ha creato il mostro. È la versione euforicamente estremista del liberismo che ha combinato il pasticcio. Perché la recessione, o la depressione, contemporanea è stata innescata proprio dal pensiero filosofico, e dai conseguenti programmi economici, della destra. Tutto è cominciato con l’offensiva neoconservatrice ai tempi della campagna per Ronald Reagan, allorché i grandi centri culturali della destra americana elaborarono il programma di fondo del mondo nuovo: il cui pilastro era che le differenze sociali non costituivano un male in sé. Le grandi ricchezze, in questa visione panglossiana, "sgocciolano" verso il basso (l’effetto "trickle down"), creando investimenti e benessere diffuso. Quindi, tagliare le tasse, favorire l’offerta economica e i consumi, evitare la redistribuzione, opporsi a qualsiasi programma "socialista", confidare nella capacità equilibratrice del mercato: ecco il programma su cui si sono impegnati Reagan e Margaret Thatcher, e che ha dettato l’agenda politica dei governi anche europei per un trentennio. Già, ma bisognava sapere che il crescere della disuguaglianza avrebbe provocato l’incepparsi dell’economia. Senza poter distribuire reddito con l’intervento statale (o con l’inflazione, o con il debito pubblico), la domanda aggregata, in termini keynesiani, cede. L’economia si blocca. Quel gran genio di Keynes lo aveva detto ottant’anni fa. E allora che cosa si è fatto? Si sono fatti indebitare i ceti medie medio-bassi, sostenendo i consumi con i mutui "subprime", il credito facile, gli acquisti a rate, le carte di credito "revolving". Poiché con l’andare del tempo l’indebitamento complessivo diventava preoccupante, l’hanno cartolarizzato e proiettato nel circuito finanziario mondiale: quando qualcuno, sadicamente, ha bucato per prova i "salsicciotti", cioè i prodotti finanziari tossici, è cominciata a venire giù pioggia acida. Questa ricostruzione sarà semplificatoria, ma è utile per smontare l’idea che la crisi attuale sia soltanto un problema tecnico, derivante dall’assenza di regole e dalla spregiudicatezza dei centri finanziari. E soprattutto serve per dire che la sinistra europea deve avere chiaro qual è l’orizzonte economico in cui si trova e i compiti che ha davanti. Ovvero: fare una diagnosi realistica della fase depressiva e rilanciare una proposta che contenga, bene in vista, un profilo di società desiderabile alternativo a quello della destra. E allora: qual è questo profilo di società desiderabile? Quali sono i fondamenti di una realtà economico-sociale a cui la sinistra deve rifarsi? Sotto questa luce, la tradizione culturale può aiutare; rifarsi al passato ha un senso. Perché la vicenda europea, negli anni del suo massimo sviluppo, si è modellata sul cosiddetto "modello renano" (così definito da Michel Albert agli inizi degli anni Novanta), cioè l’economia sociale di mercato, nata in Germania ma diffusasi con varianti nazionali specifiche in tutta Europa. Codificata culturalmente dagli "ordoliberali" di Friburgo, applicata dai cristiano-democratici Adenauer e Erhard in Germania, ma accettata e reinterpretata dai sinistra dai socialdemocratici tedeschi nel programma di Bad Godesberg, l’economia sociale di mercato intreccia mercato e welfare in modo flessibile. Oggi c’è la necessità di adeguare i sistemi di protezione sociale alle nuove necessità determinate dall’evolversi del mercato: ma nello stesso tempo una sinistra che abbia qualcosa da dire, e voglia fare qualcosa, deve porsi il problema di rivolgersi alle società contemporanee con una sua formula politica. Altrimenti si arrocca a difesa di modelli già al tramonto, colpiti ineluttabilmente dalla globalizzazione, oppure insegue faticosamente i vecchi modelli della destra neoconservatrice, senza accorgersi che il paradigma è cambiato. Per ciò che riguarda l’Italia, il problema politico-culturale della sinistra è di arrivare a una sintesi, che i tempi ristretti della fondazione del Partito democratico non hanno reso ancora possibile. Il Pd ha tante idee e tanti filoni culturali ma non un mainstream, una prospettiva centrale. E nello stesso tempo torna a essere rilevante il rapporto con la sinistra alternativa. Il sacrificio del 13-14 aprile 2008 è risultato cruento. Ma non sarebbe intelligente ignorare la realtà delle sinistre escluse dal Parlamento. Possono essere lasciate alla loro esistenza marginale, a inseguire le utopie della "decrescita", o il ritorno all’artigianato, indicato come soluzione da Richard Sennett (l’autore di "L’uomo flessibile", un fortunato saggio sugli effetti della grande liberalizzazione, che ora descrive le potenzialità del saper fare in "L’uomo artigiano", un affascinante libro da poco tradotto da Feltrinelli); oppure possono essere di nuovo riportate, le sinistre alternative, a misurarsi con la sfida del governo dei processi socio- economici contemporanei. Questo è un tema essenziale, altro che l’arcaica frattura, continuamente riesumata, tra riformisti e massimalisti. Come disse una volta Fausto Bertinotti: «Una vecchia battuta dice che in Italia fra riformisti e rivoluzionari non c’è una grande differenza, perché gli uni non fanno le riforme e gli altri non fanno la rivoluzione». Ecco, si tratta di uscire da questo circolo vizioso, e cominciare a rivolgere all’opinione pubblica il messaggio che il paese va riformato, rimesso in efficienza, riportato alla decenza, e ancora una volta il centrosinistra può farlo, risultando credibile come nel 1996, allorché la proposta di modernizzazione attenta alle compatibilità sociali ebbe successo e fu perfettamente capita dall’elettorato. Altrimenti si vedrà all’opera la "modernizzazione conservatrice" del Pdl, un intreccio di illusionismi nostalgici (il grembiule, la maestra unica, magari il presepio, le mezze stagioni, "una volta qui era tutta campagna", Dio-Patria-Famiglia) e di tagli efferati alle strutture pubbliche. Oppure il tentativo di modernizzare il paese cominciando dalla coda, ora partendo dall’articolo 18, ora colpendo i presunti "fannulloni" nell’impiego pubblico, quando in realtà si tratta di rimettere in sesto le infrastrutture essenziali (ferrovie, poste, strade, ponti, scuole, ospedali) e di far funzionare i servizi immettendo nella pubblica amministrazione una ragionevole ed efficace catena di responsabilità. In sostanza, non è vero che destra e sinistra sono uguali e indistinguibili. La destra ha una essenziale capacità mimetica, per cui fino all’altro ieri era fatta soltanto di liberisti spinti, mentre oggi è affollata di protezionisti altrettanto convinti. Quindi occorre essere capaci di differenziarsi, senza perdere di vista la realtà in cui il nostro paese è inserito, ma recuperando e ripensando i criteri e i valori fra cui siamo cresciuti, economicamente e socialmente, con modalità adeguate alla trasformazione che ci coinvolge. Si tratta di usare i parametri del mercato e della concorrenza per favorire una società più giusta, meno castale rispetto a quella dell’Italia di oggi, favorendo la mobilità sociale. Certo non è un compito facile, ma per la sinistra italiana c’è molto tempo davanti, e quindi la possibilità di ripensare i propri programmi e di rendersi credibile prima come opposizione e poi come progetto alternativo di governo.

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