Non ci vuole una fantasia eccezionale per immaginare tutte le difficoltà che il negoziato "di sistema" fra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi sulla legge elettorale si troverà ad affrontare, oltre a quelle che ha già incontrato nelle prime mosse. Da un lato ci sono le infinite varianti che qualsiasi formula deve contemplare per non scontentare troppo i soggetti politici minori, partiti e partitini (che nel centrosinistra potrebbero praticare ritorsioni contro il governo, e nel centrodestra minacciare svolte strategiche sul piano delle alleanze elettorali, portando sino in fondo la politica delle mani libere). E in via complementare a complicare le cose ci sono gli interessi dei partiti, maggiori e minori, che si intersecano con la tattica, la visione e le ambizioni dei leader, nonché il problema della durata del governo, e quindi della coalizione un tempo chiamata Unione, e dell’ex Casa delle libertà: insomma, una scacchiera con troppe varianti. Tradotto in sintesi, il tema della legge elettorale può essere enunciato nel modo seguente, in una specie di nuovo Postulato delle impossibilità: «I conflitti sul sistema proporzionale sono il frutto della proporzionale». Vale a dire: noi ci troviamo già ora in una condizione proporzionale. Il metodo maggioritario è stato abbandonato dalla classe politica, sulla base del giudizio sommario secondo cui "il bipolarismo è fallito". Conta poco che il fallimento sia stato determinato dalla scelta suicida e folle del Porcellum, che reintroduceva la proporzionale esaltando il ruolo di ogni entità politica presente in un’alleanza politico-elettorale. Adesso si tratta di fare i conti con un consenso quasi generale che pretende il ritorno alla Repubblica manovriera dei partiti, delle contrattazioni post-elettorali, degli aghi della bilancia, dei due forni. Benissimo, ci vuole realismo, inutile fissarsi sulle illusioni. Tre politologi, Piero Ignazi, Luciano Bardi e Oreste Massari hanno rilanciato sul "Sole 24 Ore" l’argomento dell’uninominale a doppio turno (il sistema francese), ma il fascino della proporzionale è irresistibile. In primo luogo perché toglie drammaticità al confronto politico: c’è in tutti la convinzione ragionevole che con la proporzionale chi vince conquista il potere, ma chi perde non perde mai del tutto e mantiene un rassicurante potere di veto. Da questo punto di vista, anche le organizzazioni di rappresentanza economica, la Confindustria, le grandi aziende come Enel e Eni, il sistema bancario, il mondo dell’informazione, a cominciare dalla Rai, si sentono tutti rassicurati. Si torna all’Italia del patteggiamento, e ciò risulta terapeutico per l’ansia di chi non sopporta il sapore della sconfitta, nonostante il fantasma delle lottizzazioni future. Eppure proprio il sentimento proporzionalista impedisce una razionale scelta della formula: ragion per cui ci si accapiglia sul Vassallum di Veltroni, sul sistema tedesco con doppia scheda elettorale, sulle soglie di sbarramento del progetto Bianco, sull’ampiezza delle circoscrizioni nel modello ispano- germanico, ancora su eventuali "premietti" di maggioranza. Eh sì, decenza vorrebbe che il nuovo metodo favorisse la formazione e la competizione di due partiti principali, costringendo i satelliti a raggrupparsi. Ma per ottenere questo scopo occorrerebbe un accordo di ferro tra Berlusconi e Veltroni, che in troppi hanno interesse a sabotare, per convenienze di bottega, gridando all’"inciucio". È chiaro tuttavia che accontentando tutti si arriva alla proporzionale pura, cioè presumibilmente alla disgregazione del sistema politico. E allora la domanda sul "che fare" ha poco senso in questo momento. Sarà pure possibile anche un tentativo di Romano Prodi, per quadrare il cerchio, in modo che l’accordo fra Silvio e Walter sia blindato dal governo in modo da garantire gli alleati della maggioranza, quelli a sinistra del Partito democratico. Ma è molto più probabile che invece si vada inevitabilmente verso il referendum. A metà gennaio la Corte costituzionale esprimerà il suo parere in proposito. Se sarà positivo, tanto vale prendere atto che il referendum si profila come l’unico modo per superare l’impasse. E anche per far sì che i partiti tornino a dedicarsi alla politica. Perché sono mesi che ci si dedica al discorso sul metodo: che è un’attività cartesiana, ma che a un certo punto dovrà pur cedere il passo ai contenuti. Altrimenti, è vero che la metafora bizantina è abusata: ma si resterebbe sempre di qui all’eternità, nei corridoi della politica a disquisire del sesso angelico della proporzionale.
26/12/2007