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Silvio circus

11/06/2009

Cronache da un’Italia molto immaginaria, in cui gli uomini di punta del Popolo della libertà e della Lega ripetono ogni due per tre che in un anno di legislatura il governo Berlusconi ha realizzato l’intero programma dei cinque anni di mandato popolare. Sono leggende, naturalmente, propaganda quintessenziale, alchimia mediatica pura. Si sono già sentite nella legislatura 2001-2006, allorché, imbrodandosi, ogni esponente della Cdl magnificava le 36 riforme del governo Berlusconi. Una mente fredda come quella di Tiziano Treu ebbe gioco facile a rispondere: «Se hanno prodotto la crescita zero, le riforme erano sbagliate». La diagnosi era azzeccata, anche in vista del crollo politico-economico della destra di metà mandato, testimoniato dal siluramento del megaministro Tremonti, accusato da Gianfranco Fini di avere truccato i conti. Fra le misure "epocali" attuate dal governo a diretto coronamento della conquista di Palazzo Chigi nel 2008, oltre alla demagogica abolizione dell’Ici vanno messe agli atti la Robin Tax, approvata da Tremonti contro le banche e i petrolieri proprio mentre la congiuntura stava per virare, e gli sgravi fiscali sugli straordinari mentre era sul punto di esplodere il dato della cassa integrazione. Quanto all’efficienza del governo, è sufficiente mettere a fuoco il penoso fallimento della "social card", strumento mortificante di pauperizzazione di pensionati e ceti non affluenti, che per una serie di incidenti tecnici si è rivelato un boomerang. È la "Fiction Italia", benvenuti, una soap opera con la griffe della destra. Un equilibrio sofisticatissimo di annunci epocali e di realizzazioni precarie. Immondizia che sparisce a Napoli per poi provocatoriamente riapparire a Palermo. Equilibri di un potere apparentemente inscalfibile, come quello gestito da Raffaele Lombardo a Palermo, che viene bombardato, «raso al suolo» dal governatore, con un specie di operazione milazziana che azzera alleanze, relazioni preferenziali, blocchi corporativi, e quella fitta trama di scambi che si era imperniata sul rapporto fra il Pdl, l’Udc, i patronage siciliani e i clientelismi locali e nazionali gestiti dall’abilità manovriera del leader del Movimento per l’autonomia. Ora, che potesse reggere un equilibrio politico fondato proprio sul movimento di Lombardo era escluso dalla logica e dalla politica. Come aveva descritto Pier Luigi Bersani: «Nella destra c’è chi vuole tenere i soldi al Nord, e chi vuole i trasferimenti al Sud. Spiegatemi come si fa a dare le risorse del federalismo fiscale a Bossi e una fiscalità di vantaggio a Lombardo». In realtà il metodo esisteva, sembra facilissimo e consiste nel gonfiare la spesa pubblica. Ciò che il governo ha fatto con puntualità, trovandosi tuttavia a dover manovrare conti difficili, prima per l’aggravarsi della recessione, poi per la necessità di fronteggiare il disastro sismico dell’Aquila. In questo quadro largamente negativo, il capo del governo e il suo ministro dell’Economia non hanno saputo dire altro se non di «avere messo in sicurezza il risparmio degli italiani», in particolare con una serie di garanzie sui conti correnti bancari. Ottima scelta, se non si basasse su un’idea di continuità del funzionamento economico che per la verità è tutta da verificare. Perché il punto centrale della "Fiction Italia" dipende proprio dalla valutazione della crisi economica. Sono mesi che Silvio Berlusconi si aggrappa all’idea che la recessione è tutta un fenomeno psicologico, una specie di ingorgo mentale di cui liberarsi al più presto «con la volontà, con il nostro entusiasmo di imprenditori». È riuscito a comunicare questi concetti perfino alla platea della Confesercenti, non particolarmente simpatizzante nei suoi confronti, anche se non ha portato a casa risultati significativi. I commercianti, non importa se di destra e di sinistra, vedono ridursi «lo scontrino» e non vedono spiragli di ripresa. La stagnazione è qui con noi. L’entusiasmo non basta. Per la sua parte Berlusconi, senza averle lette, è riuscito a portare sotto una dimensione "berlusconiana" le considerazioni finali di Mario Draghi alla Banca d’Italia, che hanno rappresentato in realtà una delle più inquietanti sentenze economiche e finanziarie ascoltate negli ultimi anni. Perché il governatore Draghi non si è certamente fatto infinocchiare dalla retorica della destra, e ha esposto con nitidezza andamenti e fatti. E i fatti sono spietati. Nonostante le iniziative assunte dal ministro più popolare del governo, vale a dire Renato Brunetta, e tutti i progetti sul piano del welfare ipotizzati nel Libro bianco da Maurizio Sacconi (ancora scolastici, slegati dalla dimensione istituzionale, e ispirati comunque a un’arretrata visione "caritatevole"), la spesa pubblica è di fatto fuori controllo. Anzi, se si osservano gli andamenti reali della finanza nazionale, come ha rilevato Enrico Letta, e come è stato messo più volte in rilievo da Giuseppe Berta, il brivido nella schiena è assicurato, con un tendenziale del debito pubblico che ci riporta a un rapporto debito-Pil simile a quello degli anni Ottanta (120 per cento nel 2010), e con la sostanziale perdita di controllo del deficit. In queste condizioni non c’è spazio per l’ottimismo di maniera. Le immagini di Alitalia e di Malpensa stanno lì a dimostrare l’effetto notte delle strategie nazionali e antimercato del governo. Anche perché i tenui segnali di rallentamento della recessione che sembra di incrociare nei dati economici rischiano di essere tutti bruciati dagli effetti reali della crisi. Se si osserva infatti la tendenza del settore manifatturiero nelle regioni italiane tradizionalmente vocate, si intravedono scenari inquietanti, con cadute del fatturato fra il 25 e il 50 per cento. Le conseguenze di un simile trend sul piano occupazionale sono già state segnalate dal governatore Draghi nelle considerazioni finali, e comportano un incremento della disoccupazione fino a oltre il 10 per cento, con conseguente caduta della domanda di merci e servizi (e quindi con contraccolpi appariscenti nei livelli commerciali e nella grande distribuzione). Nelle aree di grande industrializzazione come il triangolo industriale, il Nord-est, l’Emilia- Romagna, le imprese stringono i denti, usano con fantasia e duttilità i contratti di solidarietà in tutte le forme possibili, accedono al welfare in modo anche creativo, ma nessuno è in grado di prevedere per quanto tempo potranno resistere. All’assemblea generale della Confindustria, Emma Marcegaglia ha invitato il premier, con calore e mimica perfino eccessivi, ad approfittare del consenso di cui gode (che andrà verificato alle elezioni europee, per uscire dalla numerologia del 75 per cento), per varare immediatamente «le riforme di cui il paese ha bisogno»: che sono poi sempre le stesse, e di solito prendono il via dall’età pensionabile e dalla struttura remunerativa nel medio-lungo periodo della previdenza. Sulle altre riforme di mercato, a partire dalle liberalizzazioni, nel grigiore delle aule parlamentari e nelle commissioni la destra si è distinta in un’opaca opera di blocco delle vecchie lenzuolate di Bersani, a favore di un modello corporativo che fin qui appare come il vero e unico schema politico-sociale di Berlusconi e Tremonti. Tanto più che oggi, in attesa del G8 aquilano, si ha la sensazione di una vistosa perdita di credibilità sul piano internazionale, testimoniata ad esempio dalle fallite spedizioni a Teheran del ministro Franco Frattini, e in qualche caso dalla percezione di una politica personale di Berlusconi, rivolta specialmente verso la Russia di Putin, in cui il premier non sembra avere le mani del tutto libere. Insomma, finora la "Fiction Italia" ha avuto successo esclusivamente nell’imporre un modello sociale ed estetico. Il mondo velinaro sembra realizzare effettivamente la fase suprema e la malattia senile del berlusconismo: una realtà in cui non si sa chi effettivamente crea valore, chi paga, chi spende, chi incassa. È il mondo dell’immagine e del look, immortalato dal fazzoletto del premier con il fondotinta incorporato. A cui si affianca la politica dura verso l’immigrazione, clandestina o no, con i respingimenti che hanno inquietato anche la gerarchia cattolica. Tuttavia occorre considerare che l’Italia di oggi, simile in parte alla struttura occupazionale della Germania, è dotata di un apparato industriale che occupa ancora oggi il 20 per cento della forza lavoro. Rispetto a questa realtà, il berlusconismo è del tutto spiazzato. Non ha un’idea di politica industriale. Non ha una cultura in grado di inquadrare concettualmente la questione della crescita. È possibile quindi che la soluzione alla fiction debba venire da altre fonti. Se è vero che per maneggiare l’evoluzione della crisi economica occorrono strumentazioni politiche assai più sofisticate, occorrerà prendere atto che nelle ultime settimane si è assistito a una fortissima redistribuzione dei poteri al livello internazionale, che dalla Casa Bianca di Barack Obama ha coinvolto la Francia di Nicolas Sarkozy e soprattutto la Germania di Angela Merkel. Gli effetti di questa redistribuzione si sono visti nell’afasia del governo sul caso Fiat-Magna International, con i balbettii provinciali dei nostri ministri economici, Sergio Marchionne lasciato allo scoperto e la completa assenza di Berlusconi dal gioco grande, impegnatissimo com’era nel difendere i suoi silenzi sulle vicende velinare con le trame dei suoi staff produttori a getto continuo di format fasulli. Per questo può nascere la sensazione che nonostante tutto, nonostante la maggioranza monstre, nonostante la sicurezza ostentata dal premier, qualcosa di essenzialmente politico si stia aggirando lentamente dentro la politica italiana, cercando qualche sbocco inatteso. Il partito unico del berlusconismo presenta diversi buchi. E allora l’attivismo ancora imprecisato ma visibile di Massimo D’Alema, il tentativo radical-conservatore di Gianfranco Fini, con i suoi continui spostamenti laterali dal paradigma del berlusconismo, e anche l’embrione di associazioni e fondazioni come quella di Luca Cordero di Montezemolo, sembrano dire che il grande processo di semplificazione (populista e istituzionale) a cui guarda o guardava Berlusconi, pare ormai secondario rispetto a ciò che avviene nel cuore della realtà politica. La fiction potrebbe durare ancora, finché piacerà all’amoralismo degli italiani. Ma è assai difficile che la "Fiction Italia" possa trovare un buon finale con la farragine narrativa di un modello che ormai appare largamente sfasato rispetto alla durezza della realtà. n

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