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Silvio ha finito le bugie

27/05/2004

I nemici di Silvio Berlusconi si chiamano Mannheimer, Pagnoncelli, Swg. I sondaggi sulle elezioni europee, ufficiali e ufficiosi, ogni volta sono una ferita per il presidente del Consiglio. Non soltanto perché Forza Italia è bloccata ormai da settimane a un risultato molto mediocre, fra il 20 e il 22 per cento, almeno sette punti sotto le elezioni politiche del 2001: ma perché le indagini demoscopiche mostrano il manifestarsi di due dinamiche convergenti, ai danni del partito del premier. Uno, la crescita dell’astensionismo moderato, che penalizzerebbe soprattutto Forza Italia. Due, un giudizio ultranegativo sull’operato del governo, che esprime la delusione sulla politica economica della Casa delle libertà. Questa tenaglia rischia di essere maligna. Abituato a imporre la sua agenda alla politica italiana, Berlusconi si trova nella scomoda posizione dell’inseguitore. La guerra non c’entra o c’entra fino a un certo punto. L’Iraq è considerato dall’opinione pubblica una tragedia, ma il plebiscito antibellico è ormai sedimentato, e ha cessato di essere un fattore in grado di spostare consenso. Solo un quinto dei cittadini sostiene l’intervento in Iraq. Tutto ciò che Berlusconi poteva perdere con l’appoggio a George W. Bush lo ha già perduto: ci potranno essere altre fibrillazioni, in seguito agli eventi iracheni, ma è difficile prevedere terremoti elettorali ulteriori. Ciò che invece emerge dalle domande laterali dei sondaggisti, quelle che cercano di spiegare le scelte dei cittadini, è la delusione vistosa rispetto alla politica del governo Berlusconi. I miracoli non si sono visti. La stagnazione è una realtà. L’erosione dei redditi pure. Il "declino" un vocabolo entrato nel lessico comune. Tutto questo stride aspramente con il carattere trionfale dell’esordio in campagna elettorale di Forza Italia. Per una volta, il Cavaliere si è trovato in netta sfasatura rispetto alle percezioni dell’elettorato. In altre parole: campagna sbagliata. Il profilo di Berlusconi che contemplava cifre inverificabili, astratte, misteriose, scandiva una campagna priva di risonanze emotive, incapace di risvegliare il sentimento dei cittadini. Rapida correzione di rotta, e nuovi cartelloni che suggerivano di nuovo il volto del leader come soluzione generalista per i problemi nazionali. Ma in questo momento l’immagine di Berlusconi non è più la garanzia fisiognomica di un futuro più bello e ricco. Dopo tre anni di governo, battuto il record craxiano di durata, il leader di Fi non sembra avere in mano le carte per giocare nuovamente la partita della propria prodigiosa insostituibilità. L’uomo della Provvidenza è diventato l’uomo della previdenza, cioè un politico che con il suo governo produce una riforma delle pensioni a scoppio ritardato, a partire dal 2008, ma che dà l’idea di entrare a piedi uniti nei progetti di vita degli italiani. Lasciamo perdere le gaffe pur strepitose come la festa per lo scudetto del Milan al Castello Sforzesco, mentre in Iraq i soldati italiani venivano bersagliati dai mortai dei guerriglieri: «A Nassiriya ci sono i nostri ragazzi, sono dei militari volontari, dei professionisti, ci sono delle situazioni difficili ma sono lì per questo». È noto da sempre che Berlusconi non sa stare sulla tragedia, non è nella sua psicologia, non è la sua missione. Il capo di Fi aveva promesso il sogno, e trovarsi dentro un incubo può provocare distorsioni percettive politicamente influenti. Per sostenere una situazione grave come quella irachena ci vuole una personalità churchilliana, o almeno blairista: Berlusconi e i boys di Palazzo Chigi mostrano invece una fragilità essenziale, che affiora in tutti i momenti in cui lo stress supera la soglia fisiologica. Ma considerazioni analoghe valgono sui temi della politica economica. La debolezza del governo Berlusconi è la debolezza dei suoi uomini. L’abilità tecnica di Giulio Tremonti non nasconde l’assenza di una visione macroeconomica. La furbizia di Roberto Maroni non fa velo a continui patteggiamenti. C’è una fragilità paradossalmente "ideologica", che si è manifestata con chiarezza nel caso della riforma fiscale. "Meno tasse per tutti": era lo slogan della fortunata campagna di tre anni fa. Berlusconi ha estratto la carta dal mazzo con una determinazione per certi versi disperata, da giocatore di poker. Due sole aliquote, 12 miliardi di euro di disponibilità liquida introdotta a regime nel circuito dei consumi. Ma per interpretare rigorosamente la parte del supply-sider, occorre una volontà dottrinaria. Non ci vuole uno Zelig che è putiniano con Putin, chiracchiano con Chirac, bushista con Bush, onusiano con l’Onu, e zapaterista con Zapatero, affascinato dal garbo e dalla gradevolezza del nuovo premier socialista spagnolo (magari mentre il suo vicepremier Fini schiaffeggia moralmente "Bambi" in un’intervista a "Die Welt" in cui equipara il ritiro spagnolo dall’Iraq a una vittoria del terrorismo internazionale). Per tagliare l’Irpef potrebbe essere necessaria una ferocia di calcolo secondo cui se la riforma funziona si vincono le elezioni a dispetto di tutto; e se non funziona si avvelenano i pozzi, lasciando a un’opposizione disarmata il compito di tappare i buchi. Non solo: secondo le visioni più radicali il taglio delle tasse può produrre risultati dal lato dei consumi preferibilmente se è "iniquo", se privilegia i privilegiati. Cioè se introduce nel sistema economico risorse aggiuntive immediatamente spendibili. I ricchi spendono, i poveri pagano i debiti o risparmiano in vista di possibili aggravi futuri. Ma Berlusconi non è né Ronald Reagan, capace di fare "woodoo economics", né Margaret Thatcher, spinta da un sacro furore neoconservatore. Il premier è un uomo psicologicamente bisognoso di consenso. E il consenso è tiepido. La nuova Confindustria montezemoliana non sembra gradire un’azione sui consumi a scapito dei trasferimenti alle imprese. Un economista della sinistra riformista, Nicola Rossi, approfondisce i dubbi: «Nell’ultimo anno i consumi sono aumentati dell’1,2 per cento, gli investimenti sono caduti del 2. Siamo sicuri che nel 2005, quando un’eventuale riforma fiscale sull’Irpef comincerebbe a manifestare i suoi effetti, il paese abbia bisogno proprio di questo, di un’accelerazione dei consumi?». Tanto più che in un momento di crisi della competitività italiana la distribuzione di risorse finanziarie potrebbe avvantaggiare largamente le importazioni dall’estero, e dunque andare a vantaggio dei produttori stranieri. «Il piccolo imprenditore che si ritrova due soldi in più compra Smart o Toyota», dice Michele Salvati, ideologo del partito democratico-riformista: «E se vogliamo guardare all’esperienza americana, consideriamo che nel 2001 l’iter legislativo per il taglio alle tasse si chiude agli inizi di giugno, e i cittadini si trovano il rimborso fiscale, cash, firmato dal segretario al Tesoro Paul O’Neill, in agosto. Manovra bruciante, cento miliardi di dollari immessi direttamente nel circuito economico, altro che effetti annuncio, discussioni, rinvii a dopo le elezioni». Se si distribuisce un punto di Pil tra i 20 milioni di famiglie italiane, non è una "scossa" all’economia. Con una media di cinque-seicento euro a famiglia si elargisce un contributo per pagare l’assicurazione dell’auto e ripianare qualche modesto rosso in banca. Senza contare che il taglio delle aliquote avrebbe effetti squilibranti sul piano territoriale, premiando il Nord e penalizzando il Mezzogiorno. Con l’ombra supplementare dei tassi d’interesse in possibile aumento di qui a fine anno che potrebbero mangiarsi tutto ciò che Tremonti fosse riuscito a ritagliare sulle spese dello Stato. E con gli alleati (Udc, Lega e Alleanza nazionale) che guardano in cagnesco a politiche sospettabili di classismo. Risultato: all’annuncio della grande riforma fiscale i sondaggi restano piatti. «Ma non c’è solo la questione del consenso», aggiunge Salvati: «Immaginare un push, una spinta domestica all’economia agendo sulla leva fiscale è come immaginare in ritardo il socialismo in un solo paese. Una politica seria terrebbe le posizioni, senza avventure, ristrutturando in modo intelligente lo stato sociale e aspettando di essere coinvolti nella ripresa europea». Il resto sono illusioni. O propaganda: ma la veste pubblicitaria del berlusconismo è logora. Dopo le promesse mirabolanti del 2001, allorché quasi il 40 per cento della vecchia classe operaia votò per Forza Italia, il disincanto è il sentimento prevalente nell’elettorato di centro-destra. Secondo Roberto Weber (Swg) si potrebbe delineare una specie di temporaneo «ritiro dalla politica» dei cittadini risvegliatisi dal lungo sonno in preda al malumore. Ecco, il malumore: una delle categorie che la visione pubblica di Berlusconi non aveva mai né concepito né previsto. Oppure il «disinvestimento sentimentale» di cui parla Weber nei confronti della figura di Berlusconi. La "soglia catastrofica" del 20 per cento è a un passo. Perché è a un passo la possibile fine del sogno.

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